Riportiamo a casa
il genio di Manzù

Il 2 Novembre la lapide al Famedio del Cimitero monumentale di Bergamo, poi - speriamo altrettanto presto - le sue spoglie. Ma il sogno che Bergamo - e «suoi» bergamaschi - devono trasformare in realtà ormai senza più indugi è portare qui, da noi - a casa -, il museo che Giacomo Manzù ha allestito ad Ardea e che ha poi regalato allo Stato. Oggi lo gestisce la Provincia di Roma, ma - come aveva tristemente raccontato nel gennaio scorso la moglie Inge nel 25° anniversario della morte del grande scultore - «viene aperto solo un paio di giorni la settimana e la manutenzione lascia a desiderare».

Un modo elegante per dire che quel piccolo edificio tra i pini marittimi dell’agro pontino, che raccoglie alcuni grandi capolavori del maestro, giace sostanzialmente dimenticato, vittima anch’esso dell’ormai cronica carenza di fondi da destinare all’arte e alla cultura. Già in passato, il Comune di Ardea e il Consiglio provinciale di Roma avevano levato gli scudi al solo sentir parlare di trasferire a Bergamo le spoglie di Manzù e le opere del suo museo, ma al di là di qualche mozione votata all’unanimità, nulla è stato fatto per togliere da uno sconfortante stato di «inedia» la preziosa raccolta di Ardea. E le parole della signora Inge - pronunciate peraltro in più di una occasione - ne sono la riprova.

Ma è ora che Bergamo scenda realmente in campo, senza intenzioni bellicose, ma mettendo sul piatto un vero e proprio progetto per ridare dignità ad uno dei più grandi scultori del Novecento. Strati di polvere, erba alta e calcinacci dentro e fuori il suo museo non rendono giustizia al genio di questo grande uomo che Bergamo ha il diritto e il dovere di rivendicare.

Le alleanze non mancano: il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, è pronto ad occuparsi del problema; il rettore dell’Università, Remo Morzenti Pellegrini, non aspetta altro che impegnarsi in prima persona in questo progetto; la Fondazione Mia non ha mai fatto mistero di voler ospitare le spoglie di Manzù nella basilica di Santa Maria Maggiore, accanto a quelle di Gaetano Donizetti; il segretario generale della Fondazione Credito Bergamasco, Angelo Piazzoli, non si tira certo indietro, e lo stesso presidente della Provincia di Bergamo. Matteo Rossi - che nel cortile dell’ente di via Tasso espone l’Ulisse di Manzù - ha a cuore l’idea di far tornare il grande bergamasco. La politica, si spera, farà la sua parte.

Riportare a casa Manzù e le sue opere non è - e non vuol essere - una banale guerra di campanili tra Bergamo e Ardea, ma ha il significato profondo di chiudere una volta per tutte quel «conflitto interiore» tra il grande genio e la sua Bergamo che per anni sono stati distanti nella «forma» ma mai nella «sostanza». È un modo «per accarezzare sulla fronte» un grande figlio di questa terra e tornare a fargli riassaporare quell’«aria della sera» che impedisce a ciascuno di noi di volgere lo sguardo altrove passando davanti al «Monumento al partigiano» che Manzù ha voluto regalare alla sua Bergamo. Glielo dobbiamo.

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