La domenica di Gianluigi Trovesi
«È sempre stato giorno di studio»

«Da quando ho compiuto quindici anni la domenica per me è un giorno di studio», racconta Gianluigi Trovesi, jazzista di fama mondiale, andato ben oltre il «cortile della musica» di Nembro. «Lavoravo in uno studio tecnico da 44 a 48 ore la settimana».

«Da quando ho compiuto quindici anni la domenica per me è un giorno di studio», racconta Gianluigi Trovesi, jazzista di fama mondiale, andato ben oltre il «cortile della musica» di Nembro. «Lavoravo in uno studio tecnico da 44 a 48 ore la settimana, mi davano due pomeriggi liberi per frequentare l’Istituto musicale, e il giorno in cui studiavi veramente era la domenica. Poi sono cominciati gli ingaggi nelle balere: si suonava ogni giorno festivo, pomeriggio e sera. Quando ero libero marciavo con la banda, al seguito delle processioni. Se avevo una scrittura in balera di tre o quattro mesi, mi perdevo tutte le funzioni religiose. I servizi della banda erano quasi tutti al pomeriggio».

Il divertimento per il giovane Trovesi, già musicista in erba, è comunque a due passi, all’oratorio. «Ci si andava al cinema, quando con gli amici non si sceglieva la montagna. Nembro era un paese dove quasi tutti andavano a passeggiare, scalare, sciare. Io era un po’ tagliato fuori, per via della musica. Qualche volta si andava in trasferta al cinema di Alzano o Albino e sembrava di raggiungere New York. Non avevano dei gran mezzi di locomozione, ci si spostava a piedi. Qualcuno possedeva una motocicletta, non io».

Da bambino la domenica iniziava il sabato ed era una piccola disperazione: «Toccava fare il bagno, quello vero, nella tinozza: la mamma o la nonna ti strigliavano a dovere. Poi ti mettevano una maglia di lana cruda che sulla pelle faceva scintille di prurito. Sembrava di indossare la carta vetrata. Era così per tutti. Poi le canottierine di cotone e le lane migliori hanno cancellato quell’incubo. E dopo il sabato del lavaggio, la domenica venivi vestito a festa. Tutto il paese era vestito così. I ragazzini avevano la camicia bianca e i calzoni corti “alla francese”. Si portavano fino a dodici, tredici anni. Da bambino la vita era molto regolata dalle funzioni religiose. Quando uscivo dal portone del cortile, a sinistra avevo l’oratorio. Ma vestito a festa non potevo giocare a pallone e questo era un problema; se andavo a destra m’infilavo direttamente in chiesa e lì la divisa era perfetta. Da piccoli la mattina domenicale la si passava ad andare in giro a raccogliere le offerte per la Madonna dello Zuccarello. Eravamo una squadretta di bambini e ci si divertiva non poco. Si andava di famiglia in famiglia, dopo la Messa. Si portavano in giro anche i giornali della chiesa. Se non ricordo male ero il più piccoletto della congrega, avrò avuto sei o sette anni, gli altri una decina. Al pomeriggio toccava la lezione di catechismo e poi il film western con “i nostri” che arrivavano tra gli strepiti degli astanti. C’era un signore che sembrava vecchissimo e ci teneva a bada perché non cadessimo dalla piccionaia. Aveva un gran vocione e ogni tanto gridava: “Silensio!”, pronunciato alla bergamasca».

I pop corn non c’erano ancora: «Si mangiavano dei grumi di farina di castagne che ti asciugavano la bocca, ma erano dolci. Stringhe di liquirizia a non finire, e niente giochi perché eri vestito dalla festa. L’estate era tempo di anguria”.

I ricordi di Gianluigi sono dettagliati: il cortile, la banda, il catechismo. Poi la musica che si prende sempre più spazio nella vita e spinge Trovesi oltre il cortile, il paese, le balere, quel confine affettivo. «A ripensarci i suoni, i rumori, una volta erano diversi. Durante la settimana quando tutti erano a lavorare sentivi le sirene che suonavano, e a mezzogiorno il fruscio delle biciclette ti parlava dell’ora della pausa. Qui in zona c’erano quattro o cinque fabbriche. Il sabato i suoni del paese cambiavano, e la domenica le campane si davano un bel daffare. Abitavo a cento metri dal campanile. Suonavano l’alegressa. Il paese risuonava di voci, parole, scampanii. A ben pensarci Nembo quand’ero giovane sembrava un villaggio dell’800».

A quattordici anni Trovesi è nel Premiato corpo musicale di Nembro, poco dopo dal maestro Tassis. Lo studio della musica diventa serio, prioritario: «Suonavo quattro, cinque ore, e la gente del cortile era contenta. Più tardi, quando seguivo le lezioni di Fellegara di armonia e contrappunto, la domenica la fidanzata doveva aspettare che finissi di studiare, poi si andava al cinema».

A un certo punto arriva la scoperta del jazz, di Eric Dolphy, Duke Ellington, John Lewis, Ornette Coleman, e la domenica di Gianluigi Trovesi prende un’ulteriore piega. Da jazzista diventa famoso, uno degli improvvisatori europei più accreditati nel mondo intero. «E i giorni diventano un po’ tutti uguali. Il mio lavoro mi porta in giro per il mondo, ma quando sono a casa la mia domenica è la stessa di sempre: studio ancora. E poi, da appassionato di calcio che non frequenta lo stadio, seguo le partite, ormai spalmate su tutti i canali e i giorni. Una volta il pallone caratterizzava la giornata domenicale: c’era “Tutto il calcio minuto per minuto”. Anche se andavi in montagna avevi all’orecchio la radiolina. Ho un ricordo: goal di Cuccureddu e vinciamo lo scudetto all’ultima giornata. Che passeggiata quella!».

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