La rivincita della «Bruna originale»
Val Brembana, torna la fiera alpina

Domenica a Lenna la seconda mostra-concorso nazionale della razza bovina tipica delle Orobie. Dopo il rischio estinzione adesso il rilancio. All’asta anche i tori.

Messa da parte 40 anni fa, ora torna alla riscossa. Domani all’agriturismo Ferdy di Lenna (Bergamo), si terrà la seconda edizione della «Fiera alpina della Bruna Originaria», ovvero la mostra-concorso dell’antica razza bovina che per secoli ha abitato e dato sostentamento alle comunità alpine e non solo. I capi, un centinaio, arriveranno da Lombardia (Bergamo, Lecco e Sondrio) e da tutto il Piemonte, dove ancora la razza è stata conservata da alcuni – pochi – coriacei allevatori «resistenti» alla tentazione di introdurre animali molto più lattiferi, ma anche più delicati. A organizzare l’evento l’associazione nazionale della «Bruna Alpina Originale» (col supporto dell’associazione «San Matteo – Le Tre Signorie» di Branzi), che, solo autofinanziandosi, è riuscita ad aggregare gli ultimi allevatori della razza e ad allestire già due edizioni della fiera. Grande novità di questa seconda edizione sarà la prima fiera dei tori di razza Bruna Alpina.

Un po’ di storia: la Bruna Alpina Originaria, fino a 40 anni fa, era la razza bovina da latte più presente in Italia. Nel 1950 si contavano quasi due milioni di capi. La diffusione negli anni successivi della Frisona (Pezzata nera), molto più lattifera, portò a una forte diminuzione della Bruna in pianura. Così, per compensare il divario, dagli Anni Settanta-Ottanta la Bruna Originaria venne incrociata con esemplari americani. Ne derivò una razza capace di produrre più latte, ma meno rustica, poco adattabile a lunghi periodi di alpeggio e necessitante di un’integrazione alimentare a cereali anche in quota. Dal 1981 si abbandonò così definitivamente il nome di Bruna Originaria a favore di Bruna italiana o semplicemente «Bruna». Da alcuni anni, grazie in particolare ad allevatori della Valle Brembana e della Valtellina (Sondrio), la Bruna Originaria, ridotta ormai a 1.500 capi in tutta Italia (di cui 400 in Bergamasca), si sta prendendo una rivincita. Divenendo simbolo di identità territoriale, sostenibilità, recupero del territorio e creatività.

«I grandi formaggi della nostra tradizione – spiega il vicepresidente dell’Associazione Nicolò Quarteroni – nascono dal latte di questa razza. Latte che, in base allo statuto della nostra associazione, deriva da animali al pascolo almeno 90 giorni l’anno, mentre d’inverno devono alimentarsi principalmente di fieno. Niente allevamenti intensivi, quindi, ma libertà di pascolo, spesso mungitura a mano e soprattutto benessere dei bovini evidenziato anche nella presenza di un toro in ogni azienda per la riproduzione naturale. Tutto questo si traduce anche nel recupero del territorio e nella sostenibilità e creatività degli allevamenti: si hanno formaggi o carne dai prezzi più alti, ma giustificati dalla qualità superiore, dai sacrifici degli allevatori e dal ruolo di salvaguardia ambientale degli animali».

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