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Crediamo in Jonathan Galindo perché siamo genitori pigri e adulti pieni di pregiudizi

Articolo. Con la psicologa Alessandra Beria, specializzata in psicoterapia dell’adolescenza, proviamo a fare chiarezza su quali siano i reali pericoli – al di là dei clamori mediatici – che corrono sul web bambini e ragazzi

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Un tragico fatto di cronaca: un ragazzino di 11 anni si butta dalla finestra di casa sua al decimo piano, a Napoli. L’ipotesi di una istigazione al suicidio avvenuta tramite internet. La “solita” trasmissione tv che identifica il possibile “colpevole” in Jonathan Galindo, protagonista di una leggenda nera del web.

Un copione già visto e cavalcato dai media ai tempi del “Blue Whale”. Ricordate? Il “gioco suicida” che avrebbe causato un’epidemia di suicidi in Russia e rischiava di espandersi anche in Italia. “Notizia” riportata per giorni da giornali e telegiornali, senza che poi sia mai stato dimostrato nulla di concreto.

Sono davvero Jonathan Galindo, Blue Whale o la Momo challenge (altra leggenda horror nata in Internet) i principali pericoli che corrono sul web bambini e ragazzi? O questi sono solo i mostri perfetti cui addossare le nostre mancanze genitoriali e le nostre paure di adulti?

Creepypasta e fascino horror

“Jonathan Galindo”, una sorta di Pippo dalle inquietanti sembianze umane, chiederebbe l’amicizia a bambini e adolescenti sui social, in particolare TikTok, mandando un messaggio privato e chiedendo se “vogliono giocare”. Una volta stabilito il contatto, questa mente malata trascinerebbe le sue vittime in una serie di “sfide” fino all’autolesionismo e al suicidio.

Non è una perfetta sceneggiatura horror? Anche visivamente Jonathan Galindo è perfetto nel suo ruolo, con quel connubio di infantile e terrificante che ha fatto la fortuna di altre “maschere”: da It, il pagliaccio creato dalla fantasia di Stephen King, ad Annabelle, la bambola assassina. Storie di paura che hanno un certo fascino e il loro seguito di appassionati, ma appunto: storie di invenzione. Anche Galindo è un’invenzione, la cui genesi è stata benissimo descritta dal CICAP, il Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze.

In breve: a ideare l’immagine di Jonathan Galindo fu, sette anni fa, Dusky Sam, un artista e videomaker americano, che sul suo account Twitter ha detto di averle realizzate per un suo bizzarro piacere personale, non per spaventare o bullizzare nessuno. Nel 2017 qualcuno prende in rete le immagini di Dusky Sam e le usa per confezionare una creepypasta. Il termine deriva dall’unione di “creepy” (raccapricciante, inquietante) e paste che in inglese significa “incolla” (come la funzione copia e incolla). Si tratta di storie dell’orrore nate e diffuse sul web, riprese sui social, rilanciate e arricchite di particolari da appassionati del genere e mitomani. Non è escluso che ci possano essere anche fini illegali, anche se al momento non risultano, almeno in Italia.

La mediatizzazione e l’immaturità degli adulti

Un fenomeno curioso, ma ha senso parlarne come del pericolo numero uno che corrono in rete i ragazzini? “Vedo molta immaturità nel credere e alimentare questi personaggi – commenta Alessandra Beria, psicologa, specializzata in psicoterapia dell’adolescenza, che a Bergamo lavora presso il Centro Divenire Un’immaturità che è frustrante per gli adolescenti, perché da adulti non diamo un esempio adeguato di responsabilità. Alimentiamo la curiosità con effetti controproducenti: all’ennesima volta che in tv sentirà parlare di Jonathan Galindo, il ragazzo andrà a vedere di cosa si tratta”.

Galindo e compagni funzionano proprio come un film horror: “Alimentano le paure e le esorcizzano”, sintetizza la psicologa. Meglio però mantenere distinto il piano della fantasia da quello della realtà: “Che gli adulti credano a queste leggende metropolitane fa molto sorridere i ragazzi. Lavorando con gli adolescenti, mi è capitato che alcuni di loro mi chiedessero: ‘Come è possibile che mia madre creda che io sia contattato da Blue Whale? Come può pensare che io sia così stupido?’, si sentono molto offesi”.

La “challenge” tra reale e virtuale

Che Jonathan Galindo non esista non significa che non esistano le “challenge”, cioè le sfide diffuse su internet. Ce ne sono di tantissimi tipi, e nascono per essere filmate e postate sui social. Dalla Samara challenge, che consiste nell’addobbarsi come la bambina di The Ring e spaventare i passanti, alla Pausa challenge (una sorta di Un due tre stella, ma senza preavviso), alla Bird Box challenge, nella quale si va in giro bendati… Possono essere stupidaggini innocue, persino divertenti, o demenziali e pericolose.

L’adolescente flirta continuamente con il rischio e con la morte ma è sempre stato così. Trent’anni anni fa c’erano le gare clandestine con le macchine o le moto (“Grease” insegna), ora con l’avvento della tecnologia ci sono challenge più bizzarre che rispondono allo stesso compito evolutivo: concepire la mortalità del corpo”. Se il bambino, dotato di pensiero concreto, vive molto lontano il pensiero della morte, per l’adolescente la morte diventa una presenza reale. “In una fase di estremo cambiamento, l’adolescente sfida i limiti dell’autorità e del proprio corpo: mi faccio un selfie con le gambe a penzoloni in cima al grattacielo, ne esco vincente e, pubblicando la foto, ho anche il riconoscimento degli altri. Ma alla base resta la voglia di sfidare sé stessi. Per un adulto non è razionale farsi una foto sul cornicione di un palazzo, ma la razionalità non è il metro di misura adeguato all’adolescenza. In questo senso, le challenge non sono comportamenti psicopatologici né tentativi di suicidio”.

Quando la situazione diventa grave

Difficile, impossibile, farsi una ragione del suicidio di un ragazzino. Partiamo da un dato che dovrebbe essere, almeno in parte, rassicurante: “Non c’è correlazione fra l’indice dei suicidi e l’uso del web, dalle ultime statistiche – afferma la psicologa – I suicidi c’erano anche in passato e sono il frutto di qualcosa di premeditato e pensato nella solitudine. Poi è vero che gli adolescenti possono essere manipolati nelle loro fragilità, ma il suicidio non è mai l’esito di una challenge, se non in casi rari come conclusione di un profondo incontro con la depressione”.

Prosegue la psicologa: “L’adolescenza è un periodo complesso e travagliato che comporta il superamento di compiti evolutivi imprescindibili per diventare adulto. I più fragili possono rimanere bloccati, l’adulto lo vede come una psicopatologia, ma è un blocco evolutivo che ha sintomi anche molto importanti, ad esempio l’autolesionismo, i disturbi alimentari, alcuni tipi di dipendenze. Questo è visto come patologico, ma può anche fare parte di uno sviluppo normale. Il suicidio è l’estremizzazione di questo, non è mai un raptus”.

Le vere sfide di un ragazzino

I problemi che tormentano preadolescenti e adolescenti non sono quasi mai inerenti a oscure minacce provenienti dal deep web. Sono sfide molto più “piccole”, che coinvolgono sì i social, ma soprattutto il gruppo dei pari. “Ciò che i ragazzi mi comunicano più spesso sono la difficoltà a essere accettati nel gruppo classe. Possono avere saputo di essere stati presi in giro in un gruppo di WhatsApp di loro compagni e temere di tornare a scuola nel ruolo degli ’sfigati’. Hanno difficoltà ad accettare il proprio corpo, sono tentati dal ritiro sociale (tanto che parecchi ragazzi durante il lockdown sono stati bene). Insomma, il problema maggiore non è lo sconosciuto che adesca sul web”.

Ecco che quindi il genitore, più che temere il Jonathan Galindo di turno, potrebbe monitorare i social del figlio o della figlia dodicenne, perché (anche se non ci sono loschi adulti infiltrati al loro interno) possono essere terreno di bullismo, anche fra coetanei. Come abbiamo raccontato qui lo smartphone non sarebbe indicato prima dei 13 anni. Se lo diamo già alle scuole medie, il suo uso deve essere controllato, negoziato e quindi gestito.

Poche famiglie riescono a rispettare i 13 anni come soglia per dare lo smartphone. È una scelta che va concordata nel nucleo familiare: di sicuro non va dato nei primi anni delle elementari, ma non bisogna neanche tenere il pugno duro fino ai 18 anni. Durante la preadolescenza l’uso dei social deve essere concordato con i ragazzi, affinché sviluppino la consapevolezza di cosa è giusto o meno postare. Pensiamo al fatto di mostrare i primi segni del corpo sessualizzato: l’impulso a farlo è fisiologico, ma va concordato per capirne i rischi”.

Cosa può fare il genitore

Resistere resistere resistere. Questo il compito dell’adulto: “La famiglia deve tenere gli argini, che saranno sottoposti a grandi sfide. Un genitore deve essere presente e offrire la possibilità di confronto, anche conflittuale. Ci sono anche gli adolescenti che in casa non confliggono e tendono a rimanere chiusi. In questo caso il genitore deve mettersi nell’ottica di essere un osservatore. I segnali di disagio, come i cambiamenti dell’umore, sono visibili a chi sa guardare”.

Per quanto riguarda l’educazione digitale, è giusto spiegare quali pericoli ci sono in rete e come dire di no. “Bisogna strutturare nei figli la possibilità di difendersi anche quando il genitore non c’è. La prevenzione consiste nel rimanere ben saldi nel proprio ruolo di genitori senza spaventarsi dall’adolescenza”.

Infine il dialogo. Una chimera spesso: “È giusto che un adolescente faccia la prima condivisione delle sue esperienze fuori dalla famiglia. Poi riesce a tornare indietro e a dare dei messaggi, ma non è un dialogo completamente trasparente, soprattutto se ha fatto qualcosa che è andato al di fuori del suo controllo e non riesce a parlarne subito. L’importante è che trovi sempre una porta aperta”.

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