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Ernesto Neto, trasformare la pandemia in “simpatia” (con qualche perplessità)

Articolo. Ritorna l’appuntamento estivo di GAMeC con i grandi protagonisti dell’arte internazionale. Al Palazzo della Ragione in Città Alta, l’artista brasiliano. Allo Spazio Zero del museo, invece, l’artista lettone Daiga Grantina

Lettura 4 min.
L’installazione Mentre la vita ci respira – SoPolpoVit’EreticoLe di Ernesto Neto a Palazzo della Ragione (foto Lorenzo Palmieri)

Dopo Jenny Holzer e Daniel Buren, quest’anno l’ospite d’eccezione è il notissimo artista brasiliano Ernesto Neto, con una mostra “sciamanica” sin dal titolo ritual-musicale: “Mentre la vita ci respira – SoPolpoVit’EreticoLe”.

Nello Spazio Zero del museo protagonista è l’artista lettone Daiga Grantina con il progetto site-specific“Atem, Lehm. Fiato e argilla”. A colpire, senza dubbio, è l’accento posto in entrambe le mostre sui materiali – pietre, paglia, ma anche piante, spezie ed erbe medicinali per Neto; piume, legno, inchiostro, siliconi e tessuti per Grantina – utilizzati da entrambi gli artisti come elementi evocativi di un legame inscindibile con la natura, indispensabili per costruire nuovi universi di sensi, di senso e di spiritualità.

Un preludio, dunque, alla mostra “Nulla è perduto. Arte e materia in trasformazione”, che aprirà in GAMeC nel prossimo autunno rivolgendo lo sguardo al lavoro di quegli autori che, in tempi diversi, hanno indagato le trasformazioni della materia per sviluppare una riflessione sul mutamento, sul tempo e sul futuro del pianeta.

Neto c’è (ma si vede poco)

È bravo Lorenzo Giusti, che nella duplice veste di direttore GAMeC e curatore della mostra di Neto; ancora una volta raggiunge l’obiettivo di far approdare a Bergamo un protagonista dell’arte contemporanea internazionale.

E bravo è anche Neto, che all’apertura della mostra spiazza il pubblico con una performance a sorpresa, in cui declina in un canto dai ritmi rituali le parole che compongono il titolo della sua installazione “SoPolpoVit’EreticoLe” (o meglio, “Sopoppovìc’erecicolè”, come lo pronuncia l’artista). Il titolo del lavoro, infatti, si configura come un acrostico composto dalle parole “sole”, “polpo”, “vita” ed “eretico”, assemblate in modo da trasmettere un senso di musicalità e movimento.

È bella, infine, la mostra di Neto. Una piccola summa dei suoi temi, dei suoi simboli, della sua meditazione sui temi dell’ecologia, del ritualismo e della spiritualità: “L’artista ci invita a vestire nuovi panni e a trovare una nuova relazione con il mondo naturale, gli spiriti degli antenati e le epistemologie non occidentali a cui il progetto è legato… L’installazione costituisce in ultima analisi un potente inno alla vita, alla natura nella sua dimensione più ancestrale, e un invito a riconsiderare l’importanza di una visione non funzionale e non antropocentrica dell’universo, insieme al principio, proprio di una concezione olistica del mondo, della sostanziale materialità del tutto”.

Eppure c’è qualcosa che lascia un po’ di retrogusto amaro. In ogni parte del mondo il celebre artista brasiliano è riuscito nell’intento di mettere in scena un piccolo, grande miracolo (proprio nel senso etimologico di miraculum, “cosa meravigliosa”). Dalla prima apparizione in Italia nella Biennale di Venezia di Venezia nel 2001 all’ultima personale al Museum of Fine Arts di Houston, passando per il Sacred Secret alla Thyssen-Bornemisza Art Contemporary di Vienna nel 2015, per il monumentale GaiaMotherTree alla stazione centrale di Zurigo nel 2018, o il gigantesco Boa creato per il museo Kiasma di Helsinki nel 2016.

In ogni dove, con le sue installazioni ambientali, Neto è riuscito nell’impresa strabiliante di generare sensuali e ancestrali universi biomorfi, labirinti e spazi in lycra o intessuti a crochet percorribili dai visitatori, con le sinuose sacche pendenti dal soffitto – così evocative della prodigiosa popolazione vegetale della foresta brasiliana – cariche di chili di spezie come curcuma, cumino e pepe nero, che stordiscono con i loro intensi profumi.

Attraversare i macrocosmi di Neto è un po’ come illudersi di essere un po’ nelle foreste dell’Amazzonia e un po’ tra la vegetazione fantastica del film Avatar, dove gli alberi formano una rete che comunica e scambia informazioni.

L’environment assente

Chi ha potuto ammirare queste opere, si aspettava dunque di ritrovare al nostro Palazzo della Ragione uno degli stupefacenti environment (termine tecnico per indicare un’installazione che avvolge letteralmente il visitatore) di Neto, magari con i suoi inconfondibili “polloni” a pendere dalle capriate della sala, e ovunque l’immancabile, penetrante profumo delle spezie.
Così non è, e per quanto nella mostra bergamasca si ritrovino tutti gli elementi di senso e le simbologie che l’artista ama sempre mettere in gioco, paiono soltanto evocate più che dispiegate nello spazio, e un po’ di delusione è inevitabile. Qualche piccola sacca che pende dal soffitto non è certo sufficiente a generare un’atmosfera.

Quegli spazi di sosta che l’autore propone come “isole di meditazione” lasciano un po’ di perplessità, così semplicemente composte da cuscini muniti di cordoncino “ombelicale”, ciotoline di popcorn o foglie di basilico e qualche piantina di salvia e rosmarino in laconici vasetti da vivaio.

Al centro della sala, invece, Neto ricrea effettivamente lo spazio: sul pavimento traccia la forma di un grande sole-polpo con al centro un cerchio, una sorta di ombelico, simbolo transculturale che proietta l’analogia tra universo e corpo. Pensata come un giaciglio, l’opera si avvale dell’utilizzo di materiali recuperati in loco, come pietre e paglia, ed è pensata come uno spazio per la sosta, sul quale distendersi o sedersi per condividere l’esperienza della pausa (anche se osservare ragazzine infervorate che corrono a farsi un selfie, levandosi le scarpe ma non i “fantasmini”, i calzini invisibili, per provare l’emozione suggerita da Neto del contatto diretto con gli elementi naturali, mette un po’ di tristezza).

Nonostante tutto, il fieno

Immaginiamo che le difficoltà in epoca di pandemia qualche limitazione, anche per il recupero dei materiali, forse all’artista l’ha imposta. Ma da Neto, a Bergamo ci aspettavamo forse qualcosa di diverso. Ciò che ci appare suggestivo più di tutto è l’utilizzo a piene mani del fieno. Perché agita in noi memorie ancestrali, nella consapevolezza che sul fieno proveniente dai nostri prati, generazioni dei nostri avi hanno lavorato, dormito, si sono nutriti, hanno fatto l’amore e si sono rifugiati dall’orrore della guerra.

E in ogni caso ci pare che Neto un piccolo miracolo sia riuscito anche questa volta a farlo: trasformare la pandemia in “simpatia”, ossia attivare un’immediata concordanza di emozioni e sentimenti, tra una terra come la nostra che così drammaticamente è stata teatro della pandemia e la terra dell’artista, il Brasile, che è ancora nel pieno della tragedia, superando il mezzo milione di morti a causa del Covid-19.

Info

Ernesto Neto
“Mentre la vita ci respira - SoPolpoVit’EreticoLe”

A cura di Lorenzo Giusti
Bergamo, Palazzo della Ragione
10 giugno – 26 settembre 2021

Daiga Grantina
“Atem, Lehm. Fiato e argilla”

A cura di Sara Fumagalli e Valentina Gervasoni
Bergamo, GAMeC, Spazio Zero
10 giugno – 29 agosto 2021

Sito GAMeC

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