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La lentissima carezza di luce sulle cose della Metacosa

Articolo. Fino all’11 aprile una mostra alla Galleria Ceribelli di Bergamo. Protagonisti i sette pittori che alla fine degli anni Settanta diedero vita a un movimento artistico capace di essere uno sguardo filosofico (per tutti) sulla realtà

Lettura 3 min.
(Giorgio Tonelli - At sunset, 2013, olio su tavola, cm 63x68,6, frammento)

Rarefatta e piena di mistero, nel chiasso mediatico e natalizio, celebra il silenzio e la poesia più sottile. È una specie di “bolla” espositiva “La Metacosa”, mostra che fino all’11 aprile racconta alla Galleria Ceribelli di via San Tomaso 86 a Bergamo la breve ma conturbante avventura dei sette artisti che hanno costituito il gruppo della Metacosa: Giuseppe Bartolini, Giuseppe Biagi, il “nostro” Gianfranco Ferroni (morto a Bergamo nel 2001), Bernardino Luino, Sandro Luporini, Lino Mannocci e Giorgio Tonelli.

La Metacosa ebbe vita insolitamente breve: il movimento artistico si formò fra gli anni Settanta e Ottanta e si riuniva nello studio “sotterraneo” di Ferroni a Milano. La prima mostra fu inaugurata a Brescia nel 1979 e subito dopo all’associazione il Conventino di Bergamo, con catalogo curato proprio dal giovane Arialdo Ceribelli. Ma nel giro di pochi anni il gruppo svanì, e ogni pittore intraprese un percorso proprio (come Luporini, diventato coautore del teatro-canzone di Giorgio Gaber).

Eppure nel vederli riuniti, oggi, a quarant’anni dalla prima mostra, capiamo perché questi artisti furono in parte incompresi. Si trattava di un movimento sui generis, visto che ciascuno di loro aveva una visione pittorica differente, ma li accomunava l’idea della metacosa, ossia di esplorare ossessivamente il vero per raggiungere l’essenza invisibile dell’esistenza nascosto sotto il velo delle cose: “Guardare la cosa come se fosse la prima volta che la vediamo: vergine e scevra da ogni pre-giudizio”, dicevano.

Nell’osservare le opere di questi artisti non lasciamoci catturare dalla trappola seduttiva del virtuosismo tecnico, che può sembrare simile al tentativo illusionistico dell’iperrealismo ma non lo è. L’esperienza della Metacosa sembra filosofica prima ancora che pittorica. È una lentissima carezza di luce sulle cose, su territori quotidiani che paiono immobili e disabitati pur brulicando di segnali di vita, almeno se uno li vuole vedere. “Questa pittura non appare però fantastica, e non realistica; abita nell’interstizio – scriveva il critico Roberto Tassi – o nella terra di nessuno, tra le due regioni, respirando un poco l’aria dell’una e dell’altra, ma sfuggendo nella sua essenza a entrambe”. Risiede in questo magico limbo, in cui il tempo sembra essersi fermato, la rotta di navigazione dei poeti-pittori della Metacosa, immersi in un gioco di specchi che svelano una metavita – o meglio tante metavite – dietro la vita.

Un’esperienza intensa da provare anche oggi. Soprattutto per chi ignora l’esistenza delle metacose. Si può vivere anche tutta una vita senza mai cercare di capirla, né porsi dei perché, senza mai sperimentare “quell’attimo inquietante ma lucido” (Luporini) in cui riesci a guardarla come se fossi al di fuori di essa. Ma provare a mettere il prefisso “mèta” (= con, dopo e soprattutto trans) davanti alle cose, può davvero cambiare tutto.

La Metacosa esiste

La Metacosa non è un’invenzione per sofisticati intellettuali. Esiste davvero, ed è alla portata di tutti. Persino dei bambini, se anche la piccola Alice di Lewis Carrol è riuscita ad attraversare lo specchio per scoprire che cosa c’è oltre: “To’, adesso sta diventando come una specie di nebbia... Entrarci è la cosa più facile del mondo”.
Quando lo specchio svanisce, al di là di esso ogni pittore della Metacosa trova un suo mondo. Giuseppe Bartolini quello popolato di paesaggi e relitti di vecchie auto. Giuseppe Biagi il chiarore dei fantasmi della memoria. Gianfranco Ferroni il mistero che si sprigiona dalle cose che sembrano così meticolosamente vere da essere lontanissime dal vero. E poi i letti sgualciti di Bernardino Luino, ancora carichi di impronte di esistenza. Le finestre aperte sul mare da Sandro Luporini. Le anime di Lino Mannocci che attraversano il paesaggio come nuvole e vapori di luce. La “squallida bellezza” delle periferie di Giorgio Tonelli. Impressioni racchiuse nel bel catalogo della mostra, ricco di saggi e interventi specialistici.

Ci si accorge, per libere associazioni, che la Metacosa è stata ed è sempre lì, ad aspettare che qualcuno la scorgesse. Non è forse la Metacosa che abita, ad esempio, il letto che Eugène Delacroix (“Unmade bed”,1828) ci propone come il ritratto della sua quotidianità? Oppure il talamo (“Untitled”, 1991) che Felix Gonzalez-Torres condivideva con il compagno Ross, morto di Aids – due sagome ancora leggibili che diventano sublime simbolo dell’assenza? O ancora il letto claustrofobico e confuso di Tracey Emin, chiusa per giorni in una stanza a piangere la fine di una storia, accumulando fazzoletti, sigarette, giornali, collant e bottiglie vuote (“My bed”, 1998)?.
Non è forse la Metacosa, infine, che si svela tra i chiaroscuri dell’esistenza che il fotografo cecoslovacco Josef Sudek (1896-1976) scorgeva oltre le brume e le gocce di pioggia che velavano la sua finestra?
Noi crediamo di sì. C’è qui la stessa melanconia della Metacosa, visione intensa e meditativa della nostra condizione di uomini.

Qualche anno dopo la Metacosa – precisamente nel 1985 per lo spettacolo “Io se fossi Gaber” – Sandro Luporini scriverà con Giorgio Gaber una splendida canzone intitolata “Io e le cose”, che sembra partire dalle riflessioni di quel movimento esistenziale per scorgere nel mondo e nella luce una piccola chiave di felicità: “Io non so niente / ma mi sembra che ogni cosa / nell’aria e nella luce / debba essere felice”.

Info
Orari della mostra: 10.00-12.30 - 16.00-19.30 (chiuso domenica e lunedì)

Sito Galleria Ceribelli

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