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L’arte ricorda alle donne la fortuna di essere curvy

Articolo. Sono un’ex curvy, purtroppo. Perché con le mie forme morbide (che se avessi potuto mi sarei tenuta volentieri) mi sentivo molto meglio, in tutti i sensi. Così, nelle mie scorribande nell’arte continuo ad essere affascinata dalle forme floride delle Grazie di Rubens piuttosto che dagli eserciti di esili modelle (volutamente) prive di individualità che popolano le performance di Vanessa Beecroft

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Picasso, Due donne che corrono sulla spiaggia

E che giubilo qualche anno fa, quando la Mattel ha lanciato sul mercato le sue versioni di Barbie Curvy, rimpolpando finalmente quel vuoto extraterrestre dell’interno coscia che mi aveva sempre inquietato.
Mi pare inevitabile che l’immagine di un corpo florido non possa che comunicare sensazioni di benessere, serenità e appagamento, mentre da quella di un corpo filiforme e scavato serpeggia una sensazione di assenza, di mancanza, di desideri frenati o tarpati. Alla fine, di irrealtà.

Il corpo è specchio del proprio tempo e, come tale, ha sempre assecondato trasformazioni storiche, sociali e antropologiche. Esiste dunque davvero un “canone” estetico? Probabilmente no, e il cybercorpo, fluido e assolutamente privo di genere che si sta sempre di più affermando nell’immaginario collettivo (Sanremo 2021 in qualche modo docet), ci dimostra quanto possa essere smascherato anche il dogma (spiccatamente occidentale) della dualità maschio/femmina che anche la storia e l’antropologia sono lì a sbugiardare, con tutte le soggettività transculturali e transgeografiche che hanno sempre messo in scena.

Di più. La scienza ha dimostrato che non è vero che “è bello ciò che piace” ma ciò che ci viene proposto con maggior insistenza. Gli studi condotti negli ultimi anni dai ricercatori della Durham University dimostrano come l’esposizione di donne a certe immagini di altre donne condizionino la loro preferenza per una peculiare “forma” del corpo femminile. In sostanza, la visualizzazione ripetuta di un tipo di figura, più esile o più tonda, aumentava la preferenza delle donne per quel tipo di corpo.
A ben pensarci, probabilmente il corpo maschile è stato ancor più prigioniero di quello femminile dell’estetica dominante. Fino a tempi recentissimi, poco o nulla era mai cambiato dal prototipo del maschio “ideale” normato nell’antica Grecia: atletico e virile, emblema di forza e salute.

La donna ideale? Una, nessuna, centomila

Il “prototipo” femminile al contrario è mutato così tante volte e così radicalmente, a specchio della società che lo ha prodotto, da diventare un bigino di storia e sociologia e, possiamo dirlo, da rendere davvero impossibile identificare un “canone”: dalle longilinee e truccatissime donne libere e potenti dell’Antico Egitto ai fianchi generosi della donna dell’antica Grecia, dal fisico delicato e pallidissimo – ma soprattutto dai minuscoli piedi fasciati – delle donne della società patriarcale cinese, alle donne figlie, mogli e madri del Rinascimento italiano, che con le loro formosità veicolavano il messaggio dell’ottimo status fisico, economico e sociale dei loro mariti.

E ancora: dall’ideale vittoriano delle vitine da vespa strette nei corsetti a sottolineare fianchi e seni prosperosi – per incarnare l’ideale della donna protettiva e materna – al fisico mascolino e ai reggiseni “a compressione” delle donne degli anni Venti che, mentre gli uomini sono in guerra, conquistano il diritto al voto e al lavoro. Poi i modelli hollywoodiani degli anni Quaranta e Cinquanta, quelli delle curve “nei punti giusti” di Marilyn Monroe e di Rita Hayworth; gli anni Sessanta e Settanta, quelli del femminismo, delle lezioni di aerobica in VHS di Jane Fonda e della prima minigonna indossata dalla modella androgina Twiggy.

Sguardo perso nel vuoto, fisico scarno ed emaciato: negli anni Novanta trionfa il modello Kate Moss, ma con il nuovo millennio tutto cambia di nuovo e a fare tendenza sono i fisici tonici, scolpiti e abbronzati regalati da palestre, lampade UV e personal trainer.
E oggi? Tutto è ancor più rapido divenire, ma non si può certo dire che l’abbondanza non sia tornata ad essere iconica. E il dizionario si aggiorna: se un tempo per descrivere la fisicità della donna si ricorreva alle domestiche metafore della pera o della mela, oggi si sbandierano la filosofia curvy friendly e il movimento body positivity (ne abbiamo parlato qui). Ma la sostanza non cambia.

Il curvy nell’arte

Lasciamo da parte le associazioni più ovvie e immediate, come i rotolini della paleolitica Venere di Willendorf, le forme floride della Venere del Botticelli, le abbondanze sensuali e deliziosamente punteggiate di cellulite delle donne di Rubens o delle bagnanti di Courbet, o le gigantesse di Botero.

L’arte (come la moda) si è sempre fatta interprete dell’immaginario del proprio tempo. Ma a volte ha fatto di più, accendendo la miccia del cambiamento. Dalla lunga galleria di bellezze ideali che ci ha proposto emerge, infatti, un drappello di donne curvy che sono ancora oggi icone senza tempo di unicità, di libertà e di consapevolezza del proprio corpo prima ancora che di bellezza.

Il più bel fondoschiena dell’antichità

Afrodite, si sa, è la dea della Bellezza. Ma quando è Callipigia (dal greco kalόs, bello, e pygḗ, natica) diventa una vera star, capace di calamitare, per secoli e ovunque vada, gli sguardi rapiti dei visitatori, uomini o donne che siano. Scolpita nel marmo alla metà II sec. d.C. ma riprendendo un’iconografia già nota dalla metà del IV sec. a. C., e oggi conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, la Venere Callipigia è “fotografata” dallo scultore nell’atto di alzare il peplo per esibire un perfetto, tondo e morbidissimo lato B.

La Venere Callipigia, Napoli

Con una punta di orgoglio e di consapevole malizia, aggiungeremmo, visto che la dea si volge per ammirare le sue linee perfette e tondeggianti. Un gesto scaramantico che nell’antica Grecia era un vero e proprio rito, il tradizionale “anasyrma” per tenere lontani sfortuna e nemici, ma che oggi è un vero e proprio inno alla sensualità e alla positività che è intrinseca in un corpo che non rinnega le proprie forme.

La curvy più ammirata a Bergamo

Non sarà di certo una Venere ma non è un caso che uno dei capolavori più gettonati dell’Accademia Carrara sia il “Ritratto di Lucina Brembati” di Lorenzo Lotto (1518-1523 circa). Autenticità e consapevolezza sono il segreto del successo di questa paffuta gentildonna, con il suo naso un po’ troppo lungo, il doppio mento, le guance arrossate. Immediata simpatia per questo donnone che si fa un vanto della propria salute fisica e del proprio benessere morale e materiale.

La donna ostenta una libera sfacciataggine, a sfregio di che cosa possano pensare i contemporanei e soprattutto i posteri dei suoi “eccessi” di gola e di costume (la monumentale “capigliara” di capelli posticci, la sovrabbondanza dei gioielli, e quello stuzzicadenti in oro che una trentina di anni più tardi monsignor della Casa, nel suo Galateo, metterà al bando: “E chi porta legato al collo lo stuzzicadenti, erra senza fallo”).

La meraviglia tatuata

Intorno al 1920 Suleika, che si esibiva con il nome di Maud Arizona, era una vera star, capace di affascinare folle con il suo mix di curve, pose maliziose e di bizzarria tatuata.

A creare il “miracolo tatuato” fu lo showman e tatuatore Rudolf Schulz che pensò di ricoprire di tatuaggi le forme generose di questa giovane donna che si guadagnava da vivere come domestica e cameriera. Ma a consegnarla definitivamente alla storia fu l’artista tedesco Otto Dix che nel 1922 immortala le curve decorate di Suleika in una celebre incisione e poi in un dipinto. Altro che Achille Lauro.

Una corsa di straripante felicità

Siamo nel 1922, e in questo periodo Picasso vive l’amore per Olga Khochlova, la ballerina russa dei balletti di Segej Djagilev, da cui un anno prima è nato il piccolo Paulo. In una delle estati che Picasso trascorre con la famiglia nel nord della Francia, nasce questo bozzetto (“Due donne che corrono sulla spiaggia”) che è puro respiro di libertà: due “grandi” donne che si lanciano in una corsa travolgente e spensierata sulla spiaggia regalandoci un momento di assoluta liberazione, di vitalità allo stato puro, di energia e ottimismo per il futuro.

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