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«As Bestas» di Sorogoyen, il «Bardo» di Iñárritu, l’ultimo Spielberg, «Vortex» di Gaspar Noé e «Il Federale» per il 25 aprile

Articolo. Una selezione di titoli da scoprire in sala o da recuperare sulle piattaforme. Con un consiglio particolare per la Festa della Liberazione del 25 aprile, da celebrare (anche) al cinema

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«As bestas. La terra della discordia» (Foto Movies Inspired)

Intolleranza e conflitti sporchi di terra. Onirismo e crisi dell’ego tra velleità autoriali e sindrome dell’impostore. Memorie di infanzia e dichiarazioni d’amore per il cinema. La poesia e il cinismo della vecchiaia. Una satira dei costumi fascisti per il 25 aprile. Sono i temi dei titoli che vi raccontiamo di seguito, disponibili in sala o sulle piattaforme.

«As bestas. La terra della discordia» di Rodrigo Sorogoyen (sala)

Presentato in anteprima lo scorso anno al «Festival di Cannes» e dal 13 aprile in sala anche in Italia, questo dramma a corde tesissime diretto dallo spagnolo Rodrigo Sorogoyen sta facendo incetta di premi internazionali e di ottimi riscontri di critica e pubblico. Tratto da una storia vera, racconta le vicende di una coppia francese che, trasferitasi in un villaggio rurale della Galizia, subisce quotidianamente l’ostilità e la violenza di due fratelli scapoli vicini di casa. Questi sono avvelenati dalla presenza del “francesino” che si è trasferito a “giocare al contadino” e a ristrutturare i ruderi per favorire il ripopolamento della terra dove sono nati, cresciuti e rimasti intrappolati senza un progetto di vita che non sia spalare letame e trarre solo miseria dalla fatica. È il solito bisogno di identificazione del nemico, che è inquietante per quanto ci è familiare.

È una specie di malora fenogliana quella che racconta il regista, un “paesaggio morale” di un mondo rurale stupendo ma tutt’altro che idilliaco, dove gli uomini possono essere bestie ed è ribaltato lo stereotipo della natura come rifugio dalla follia del quotidiano-urbano: anche in un angolo di paradiso si ha continuamente l’impressione che qualcosa di terribile possa accadere, in qualsiasi momento. Per questo ne esce un thriller potente e serratissimo anche quando rallenta, le interpretazioni sono intense e calibratissime, tutte davvero sul pezzo. C’è poi un turning-point hitchcockiano che a una certa ribalta il banco e allarga la prospettiva aprendo lo spazio a un’interpretazione femminista delle dinamiche di sopraffazione dell’altro.

«Bardo: false chronicle of a handful of truths» di Alejandro G. Iñárritu (Netflix)

L’ultimo lavoro di uno dei registi più acclamati (e premiati) degli ultimi anni era stato accolto con freddezza già alla sua prima veneziana, lo scorso settembre. In corsa per il Leone d’Oro al miglior film, ha strappato un battimani più di cortesia che di entusiasmo. Dopo una breve apparizione in sala a novembre, il film è finito parcheggiato su Netflix senza godere di particolari attenzioni.

Definito diffusamente “il più personale” tra i film del regista (se ne è parlato scomodando persino «8½» di Fellini) «Bardo» racconta un alter-ego del regista, Silverio, documentarista emigrato negli Stati Uniti che torna in Messico dopo molto tempo. Inaugura così un percorso di riflessione in cui si ritrova a fare i conti con sé stesso, la sua famiglia, il suo essere artista riconosciuto e migrante privilegiato. Lo vediamo affrontare una serie di esplorazioni oniriche e grottesche nei ricordi, si salta dalla storia del Messico al rapporto col padre. Come era stato per «Birdman», l’ego artistico in crisi si contorce in interrogativo esistenziale, diventa riflessione sulla vita e sulla morte. Da qui il titolo: nel buddismo, il «bardo» è uno stadio intermedio tra la morte e la rinascita, una dimensione di sospensione transitiva in cui l’anima compie delle esperienze prima di reincarnarsi.

Il film è caotico, stratificato, schizofrenico, costosissimo senz’altro, talvolta un po’ kitsch e davvero troppo. Tuttavia, se la giostrina pirotecnica e postmoderna di «Everything Everywhere All at Once» è piaciuta tanto ed è valsa sette Oscar (regia compresa), il grande pubblico dovrebbe riconsiderare questo (forse, a questo punto, sottovalutato) esperimento di massimalismo espressivo di Iñárritu. Uno che riesce a essere grande anche quando non fa centro.

«The Fabelmans» di Steven Spielberg (sala)

«Il peggior risultato finanziario per un film diretto da Spielberg». Un flop che tuttavia non ha impedito di raggiungere l’attivo – se si tratta di Spielberg è pur sempre un gioco a vincere – e che si è fatto largamente apprezzare per la cura e la sensibilità dolceamara con cui il regista ha saputo raccontare la sua storia di adolescente cinefilo e quella della sua famiglia.

Il film è uscito in sala in Italia lo scorso dicembre, ma ancora lo si può trovare nella programmazione di qualche sala di provincia. Vale la pena non farselo sfuggire perché è una storia meravigliosamente raccontata che parla di un amore sconfinato per il cinema, e di come si sia intrecciato a vicende familiari non certo tutte rose e fiori. A partire dall’infanzia, nel 1952, quando con i genitori Spielberg vede «Il più grande spettacolo del mondo» di Cecile B. Demille, il film sul circo Barnum, la “fabbrica dei sogni” che ha insegnato lo show business a Hollywood.

Con una rielaborazione di «Blow Up» di Antonioni (o di «Blow Out» di De Palma) si apre l’intreccio vero e proprio attraverso cui raccontare la relazione cinema/vita di famiglia: il giovane Spielberg, montando un filmino di famiglia in super 8, scopre qualcosa di sconvolgente, e attraverso il cinema diventa grande. Inserisce così una bella riflessione sull’essenza del cinema, sulla potenza delle immagini come strumento di indagine della vita, della complessità delle relazioni. C’è poi un cameo finale davvero esilarante di David Lynch nei panni di John Ford.

«Vortex» di Gaspar Noé (MUBI)

Il 16 luglio 2021, il giorno della presentazione di «Vortex» al «Festival di Cannes», il regista – noto e apprezzato per un cinema “dell’eccesso” ad alto impatto emotivo e visivo – ha pubblicato su Instagram una foto da un letto di ospedale, con questa didascalia: «Brain hemorrhage – Day 11». La foto risaliva a un anno prima, Noé ha poi spiegato in un’intervista: «Un anno e mezzo fa ho avuto un’emorragia cerebrale e sono quasi morto. Sono sopravvissuto e miracolosamente non ho avuto alcun danno cerebrale. Ma mi hanno consigliato di rimanere a casa. Due mesi dopo essere uscito dall’ospedale, il confinamento è iniziato ovunque». Ha aggiunto poi di aver chiuso con gli eccessi da quel momento, dalle droghe al sale sulle pietanze.

«Vortex» risente di quell’esperienza. Racconta la quotidianità di una coppia di anziani interpretati da Dario Argento e Françoise Lebrun. Lui è uno scrittore che lavora a un libro sui sogni nel cinema (e sul cinema come sogno), lei è una psichiatra in pensione che comincia a manifestare i primi segni di demenza. Vivono la vecchiaia in un appartamento di Parigi pieno di libri e poster cinematografici, di quando in quando ricevono la visita del figlio tossicomane. Vecchiaia, solitudine, amore, l’amara grazia delle cose che appassiscono, la morte: è tutto nell’orizzonte di uno sguardo ispirato, tenero e impietoso insieme.

Salvo l’inizio, il film è interamente editato in split screen , lo schermo è diviso in due inquadrature-loculi che corrispondono a due camere da presa che lavorano simultaneamente: da una parte lui, dall’altra lei. Una metafora efficace e insospettabilmente elegante per raccontare l’intreccio e l’interdipendenza di due solitudini. Non sono soprattutto questo, in fin dei conti, l’amore e la vita?

«Il federale» di Luciano Salce – in sala il 25 aprile

Tra i tanti film tra cui scegliere per onorare il giorno-simbolo della Liberazione dal nazifascismo, Lab80 ha scelto di proiettare all’Auditorium di Piazza della Libertà la commedia « Il federale » di Luciano Salce (spesso ricordato per aver girato i primi Fantozzi). Protagonista la coppia composta da Ugo Tognazzi e Georges Wilson, con una Stefania Sandrelli quattordicenne e nel ruolo di una ladruncola, al suo secondo film. Tognazzi è Primo Arcovazzi, “decorato della Milizia”, ridicolo fascista, fedelissimo e fanatico. Vuole diventare segretario federale: per ottenere il titolo gli è ordinato di riportare a Roma il professor Erminio Bonafè (Wilson), filosofo antifascista che è stato scelto per essere il prossimo presidente del consiglio ed è fuggito in Abruzzo. Il viaggio di ritorno è sgangherato, costellato da peripezie con cui Salce fa satira sulla stupidità del costume fascista.

Uscito nel 1961, «Il federale» è parte del filone cinematografico che dal 1960 riporta il tema della guerra e della Resistenza sullo schermo dopo un decennio di rimozione. Tognazzi è sfaccettato nel suo incarnare l’imbecille filosofia fascista, e come nel film “fratello” «La marcia su Roma» di Dino Risi dell’anno seguente, aggiunge spessore al personaggio oltre le gag comiche. I due infine arrivano a Roma e la trovano piena di americani, che un fascista non l’hanno mai visto: tutti spariti. Resta solo l’Arcovazzi, deriso come il classico ultimo scemo a sapere le cose, poi quasi linciato dalla gente comune e fucilato dai partigiani. Ma niente paura, nessun finale “divisivo”: c’è l’indulgenza nostrana, in cui la responsabilità non è dell’uomo ma della divisa che indossa. Tolta quella, risolto il problema, il fascismo non esiste più: domani torneremo a far tarallucci e vino. In questo senso, un film emblematico.

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