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Cosa ci dicono dell’America le otto stagioni di “Homeland”

Articolo. La serie completa, iniziata nel 2011 e conclusasi l’anno scorso, è disponibile su Star, la piattaforma inclusa in Disney+. Un’occasione per andare oltre la narrazione e ipotizzare che cosa rappresentino due dei personaggi principali: Carrie Mathison e Saul Berenson

Lettura 4 min.
Carrie Mathison

Perché ancora “Homeland”? Il web trabocca di articoli a riguardo ma la pubblicazione dell’ottava e ultima stagione ad opera di Star, la nuova piattaforma inclusa in Disney+, che ha reso accessibile pressoché a tutti il finale (apparso per un breve periodo anche su NowTV), obbliga a qualche considerazione. Se non altro perché “Homeland”, nel suo dilungarsi stagione dopo stagione (non tutte alla stessa altezza), presenta due dei caratteri principali (Carrie e Saul) come possibile sottotesto dello stato di salute contemporaneo degli USA. Interpretazione troppo avventata? Possibile. Ma di certo otto stagioni non le fai solo perché quella prima è andata bene. Ci dev’essere qualcosa sotto. E allora cerchiamo di capirci qualcosa di più.

Diciamolo subito: l’ultima stagione, l’ottava, arriva stancamente in fondo e di certo – come spesso accade per serie così lunghe e ricche di accadimenti – non serve a chiudere chissà quale discorso. Ma diciamo anche un’altra cosa: gli Stati Uniti, e in particolare la CIA, da “Homeland” non escono bene, quindi nessuna agiografia, sacrificando anche un po’ di verosimiglianza.

Intrighi, congiure, rapporti sottobanco (con i russi soprattutto, perché la Guerra Fredda ha lasciato uno spifferino tutt’altro che innocuo), presidenti che si scoprono quasi dittatori, altri che sono dei mezzi rimbambiti: in mezzo a tutto questo due personaggi che attraversano le tante vicende di otto stagioni spesso al cardiopalma. Carrie Mathison (la bravissima Claire Danes) e Saul Berenson (Mandy Patinkin). E a voler essere precisi, fino alla terza stagione anche l’oscuro Nicholas Brody (Damian Lewis), che rimarrà nei ricordi e nella vita di Carrie, poiché insieme avranno una figlia, Frances, che poi verrà data in affidamento perché Carrie la madre non riesce proprio a farla. Del resto il suo compito è salvare il mondo (e di frequente non riuscirci).

Il quid dell’avventura – che si sposta dall’Iraq all’Afghanistan, passando per la Siria, Israele e la Russia – è che Carrie è bipolare, beve molto, prende pillole in dosi industriali e soprattutto fa assolutamente quello che le pare. Sia quando ordina (sbagliando) ad un drone di cancellare dalla faccia della terra i partecipanti a un matrimonio in Afghanistan che lei credeva essere terroristi. Sia quando – e capita moltissime volte – riceve un ordine e fa esattamente il contrario.

Se poi l’ordine arriva da Saul, cioè da colui che rappresenta l’Istituzione – anche quando cercano di farlo fuori; anche quando dell’Istituzione si prende tutte le responsabilità (il marcio compreso); anche quando si fa carico, esasperato, delle responsabilità altrui – allora la disubbidienza è assicurata. La CIA non è un bel posto e Saul è quanto di meglio l’Agency possa offrire alla voce qualità morali.

Fra loro c’è un rapporto padre-figlia di odio e amore: Carrie fa, si muove per conto proprio, a volte la porta a casa, a volte no (sto cercando di stare sul vago per non anticipare nulla a chi ancora “Homeland” non l’ha vista). E Saul si arrabbia quando gli disubbidisce, fa la sua tipica faccia alla Saul (non si può descrivere, va vista, poi è sicuro che la farete anche voi), la manda in luoghi sensibili quando invece dovrebbe stare in una clinica psichiatrica, e poi lei torna e litigano furiosamente oppure si abbracciano. I droni, la geopolica americana, quell’attentato che devasta la sede della CIA di Langley, i morti, tanti morti, le trame, le strategie. E al centro loro due (o tre fino alla terza stagione): Carrie, Saul (e Nicholas).

“Homeland” è una serie avvincente, ottima per il binge-watching e scritta in modo che dopo un paio di episodi stiate già dalla parte di Carrie, eterna vittima di sé stessa e delle sue magagne psichiche, e di Saul, che viene tradito dalla moglie Mira, mobbizzato dagli altri della CIA, addirittura messo in carcere e poi nell’ultima stagione eletto consigliere per la sicurezza nazionale di quel presidente Warner che in un viaggio in Afghanistan ci lascerà le penne (a proposito di verosimiglianza).

Questo per farla molto breve (mi perdonino gli Homeland addicted per le mancanze e le inesattezze), perché qui chi scrive vuole prendersi il rischio di indagare, come anticipato, soprattutto il sottotesto. Insomma che cosa rappresenta Carrie? E Saul?

È facile dire che Carrie Mathinson rappresenti l’America. Sì, ma quale America? Lei è un cane sciolto, è allergica alle regole e soffre: la picchiano, la rapiscono più volte, la estromettono dalla CIA, si innamora di Nicholas Brody, un ex soldato americano convertito all’Islam che patisce una sindrome post-traumatica (e forse vuole far saltare un po’ di cervelli), sconta il carcere duro in Russia e molto altro. È dentro la CIA ma è anche fuori, per un certo periodo si estranea fisicamente (lavorando per una Ong) e per il resto ha sempre la mentalità dell’outsider.

Dà l’ordine di polverizzare una casa piena dove si sta svolgendo un matrimonio e qualche puntata dopo va a trovare quel che è rimasto dei cadaveri. Dopo Brody, si innamora di quella macchina da guerra che è Peter Quinn (Rupert Friend) e lo vede morire perché non è in grado di gestire il suo post-trauma da avvelenamento per gas nervino (forse la scena più agghiacciante di tutte le otto stagioni).

Per farla breve è spesso confusa, spaesata, sofferente, divisa nella coscienza e nelle intenzioni. Sembra quell’America che vista da qui pare non capirci più niente. Un paese con una popolazione fortemente indebitata, intimorito da forze geopolitiche vecchie e nuove (la Russia, la Cina) e da nazioni “terroriste” che in certi casi buona parte della popolazione non sa neanche collocare sulla carta geografica (l’Afghanistan, la Siria).

Un paese dipendente dagli psicofarmaci, violato dall’11 settembre e mai più ripresosi se non con guerre sbagliate in cui i soldati di casa sono state le prime vittime. Senza parlare dell’enorme crisi democratica che l’Unione sta attraversando, perfettamente rappresentata nella serie dall’anchormanBrett O’Keefe (l’attore inglese Jake Weber), che fra accuse alla Presidente, fake news e falsi profili social incarna benissimo lo spirito di sfiducia nelle istituzioni e rancore crescente di una bella fetta d’America oggi.

E Saul? Lui dovrebbe essere il capo del “Team America”, per citare un film d’animazione scritto dai creatori di “South Park” quale satira della “World Police” di Bush dopo l’11/9. Invece è lo sgretolamento delle istituzioni incarnato in un uomo barbuto che in certi momenti trabocca di scrupoli di coscienza e in altri vive crisi interiori forse più grandi di lui. In otto stagioni succede sovente che lo rapiscano, poi ci pensa una Presidente a incarcerarlo e un altro a nominarlo consigliere per la sicurezza nazionale. Non è cattivo, non è inesperto, non è nemmeno stupido, anzi.

Ma la matassa inestricabile generata dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre – a base di Al Qaeda, Talebani, ISIS, Russia, Israele e presidenti uno meno incoraggiante dell’altro – forse è troppo anche per lui, che non vede l’ora di affacciarsi da una casetta bianca in Grecia, vista mar Jonio (l’Europa, cioè quello che per un americano rappresenta il paradiso o giù di lì).

“Homeland” è il riadattamento all’americana di “Hatufim”, una serie made in Israele creata da Gideon Raff (sua la sceneggiatura anche qui, come quella della consigliatissima “The Spy”). È iniziata nel 2011, è finita lo scorso aprile, si è beccata un sacco di premi. Ma soprattutto in otto stagioni, anche adeguandosi a quanto accadeva nel frattempo, “Homeland” ha raccontato lo stato di salute (malfermo) di un paese caracollante. Se le serie tv hanno una funzione, oltre a quella di proporre svago e intrattenimento, è quella di raccontare il mood di un Paese in un dato momento. E “Homeland” in questo riesce benissimo.

Pagina Wikipedia di “Homeland”

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