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“Il re di Staten Island” e il diritto di essere un outsider

Recensione. Judd Apatow, il padre della nuova commedia americana, torna dopo cinque anni per raccontare l’America disfunzionale e periferica dei suoi freaks & geeks. E disegna un ritratto affezionato della gioventù di oggi tutt’altro che banale

Lettura 4 min.
Pete Davidson in una scena di “Il re di Staten Island”

Forse il nome di Judd Apatow alla maggior parte delle persone non dice molto. Tuttavia è quasi impossibile, soprattutto negli anni zero del nuovo millennio, non essersi imbattuti in qualcosa che portasse la sua firma. Regista, sceneggiatore, produttore, attore e mille altre cose, Apatow è considerato il padre della nuova commedia americana. Una categoria per la verità piuttosto labile e sfumata, difficile da definire. Eppure per un lungo periodo quasi tutte le commedie non solo scritte, dirette o prodotte, ma anche solo lontanamente associabili al suo nome, sono diventate dei grandi successi.

Dalla serie tv di culto “Freaks and Geeks” (2000-2001), ai film “40 anni vergine” (2005), “Molto incinta” (2007) e “Questi sono i 40” (2012), passando per opere midcult come “Dick e Jane – Operazione furto” (2005), “Strafumati” (2008) o “Zohan” (2008) e arrivando fino ai recenti lavori televisivi “Girls” (2012-2017) e “Love” (2016-2018), Apatow ha creato uno stile, un mondo e un genere comico che hanno dato un’impronta indelebile alla commedia americana degli ultimi due decenni. E influenzato più di una generazione di artisti, attori (interpreti come Seth Rogen, Steve Carell, Paul Rudd, Jonah Hill, Katherine Heigl e molti altri devono soprattutto ad Apatow la propria notorietà), registi comici e spettatori.

Non bisogna lasciarsi ingannare dai titoli (spesso fuorvianti della versione italiana) che lasciano immaginare derive fra il demenziale e il vanziniano: i film di Apatow sono quanto di più moderno e brillante si possa trovare nel genere comico di oggi. Quasi mai volgari, realmente divertenti e spesso geniali nel cogliere i tipi umani della classe media americana ironizzando sul loro stile di vita e sulla difficoltà dello stare al mondo dentro una società piena di manie, regole sociali non scritte e conformismi. Qualcosa di molto più simile alla stand up comedy che alla commedia comunemente intesa.

E non a caso l’attore protagonista dell’ultimo film del regista newyorkese, “Il re di Staten Island” in streaming da noi a partire da domani (Sky, Chili, Rakuten Tv, Prime Video, Google Play, Tim Vision, Infinity e Apple Tv), è proprio uno stand up comedian. Si tratta di Pete Davidson, giovanissimo comico e cabarettista statunitense da alcuni anni membro del “Saturday Night Live”. Davidson, anche co-sceneggiatore, interpreta Scott, un ventiquattrenne che vive a Staten Island (borough di New York situato su un’isola nella parte più meridionale della baia) con la madre infermiera e la sorella minore in procinto di partire per il college. Il padre pompiere è morto quando Scott era solo un bambino e questa perdita, nonostante i tentativi da parte del ragazzo di mascherarlo, gli ha segnato la vita.

Scott non è diplomato, fa dei lavori saltuari, ha degli amici ai quali è molto legato ma che sono degli sbandati, frequenta una ragazza, Kelsey, ma non vuole impegnarsi. È pigro, sfaccendato, casinista, quasi sempre strafatto e profondamente immaturo. Ha una sola aspirazione: fare il tatuatore, ma non è nemmeno tanto bravo e il suo sogno di aprire un risto-tattoo shop è a dir poco delirante. Per la verità in questo immobilismo quasi parassitario Scott sembra sguazzare senza particolari patemi, ma lentamente gli eventi lo portano a fare i conti con la piega declinante che ha preso la sua vita, con la gestione degli affetti e con il grande rimosso rappresentato dalla morte del padre.

L’ultimo lavoro di Apatow, “Un disastro di ragazza” (2015) era stato anche un disastro di film, tanto da portare molti detrattori – non senza qualche ragione – a paragonare la carriera del regista a una sorta di “bolla” che si era iniziata a sgonfiare dopo la fine del primo decennio degli anni 2000. Eppure il ritorno a un completo controllo del lavoro (produzione, scrittura, regia) abbandonato nel film precedente e recuperato in questo, sembra dimostrare come la sua verve sia tutt’altro che esaurita. “Il re di Staten Island” è infatti una piacevole divagazione su uno dei temi apatowiani più peculiari: il fallimento.

Come un po’ tutta l’umanità più tipica dei film del regista, anche Scott è un disadattato, un perdigiorno amante della marijuana e dei pomeriggi oziosi insieme agli amici cui capita un imprevisto che rimette in discussione la sua esistenza. E allora gli tocca rivedere i suoi piani, le priorità e il suo mondo e a iniziare a considerare la possibilità di un cambiamento. Ma cambiamento non significa per forza mutamento di carattere, sconvolgimento delle proprie regole o totale rovesciamento dei propri orizzonti. No, Scott non cambia mai il suo modo di essere e di guardare la vita: la caccia a una consapevolezza maggiore e gli sforzi per diventare grande – perfettamente sintetizzati da quello sguardo verso l’alto con cui il film si chiude – non simboleggiano il superamento del proprio essere.

In fondo il tatuaggio sconclusionato, eccessivo, infantile che il ragazzo disegna nel finale sulla schiena del nuovo compagno della madre, Ray, ne è la dimostrazione. Non si può chiedere a Scott di diventare un altro o smettere di essere se stesso, al massimo si può sperare di fargli capire l’importanza di essere parte di qualcosa e a voler bene.

Ed è giusto che sia così. Il messaggio è meno banale di quanto sembri, perché in fondo non c’è (come non c’è mai stato) alcun moralismo o giudizio negativo da parte del regista verso i suoi personaggi. È anzi piuttosto evidente quanto sia loro affezionato, quanto ami le loro imperfezioni e la loro eccentricità: il loro essere freaks (o geeks). Senza minare in alcun modo il loro sacrosanto diritto al “fallimento”, appunto. Del resto, non è l’essere indifferenti alle convenzioni o disfunzionali alle regole sociali a impedire di diventare degli eroi. Basti vedere il modo in cui viene svuotata di retorica la vita del padre di Scott, sacrificatosi per salvare gli altri, quando i colleghi ne rievocano il ricordo.

Ma guardare in faccia Scott significa anche raccontare una generazione, quella dei ventenni di oggi, per nulla facile da comprendere. In questo l’apporto alla sceneggiatura di Davidson è assolutamente decisivo. Egli interpreta infatti un personaggio che non solo gli somiglia fisicamente, ma è sostanzialmente modellato sul suo carattere. Una versione di lui se non avesse trovato il successo come comico. Non solo Davidson è nato e cresciuto a Staten Island, ma come Scott soffre del morbo di Crohn e ha un passato di droghe, amicizie discutibili e giornate sprecate a non fare nulla. In più Pete ha realmente una sorella più giovane e suo padre è uno dei vigili del fuoco morti in servizio durante gli attentati dell’11 settembre, cosa che lo ha perseguitato per anni e gli ha fatto spesso meditare pensieri suicidi.

Un dato di realtà in grado di rendere ancora più evidente come lo stile di vita di Scott sia comune a quello di molti suoi coetanei e oltre a renderlo una sorta di archetipo di un certo tipo di gioventù americana, mostra anche le fragilità e la complessità nascoste dietro i comportamenti e i modi di essere di una generazione troppo spesso incompresa o dimenticata.

In questo anche l’ambientazione diventa una metafora efficacissima. Luogo particolare e bizzarro Staten Island è parte della metropoli più dinamica del mondo senza esserlo veramente. Posta al di là della baia, raggiungibile solo con il traghetto e in attesa che la gentrification la raggiunga (come dice Kelsey nel film “è toccato a Meatpacking, al Village, a Brooklyn… Siamo i prossimi!”) è la sintesi più esplicita del concetto di outsider. Ed è proprio da lì che si origina la comicità più tagliente e beffarda di Pete. In fondo riderci sopra è quasi sempre una buona idea.

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