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“La casa dell’amore”, il cinema ai margini (ma senza pietismo) di Luca Ferri

Intervista. “La tenerezza tenerezza è detta / se tenerezza cose nuove dètta”. Sono i due versi di Sandro Penna che aprono l’ultimo film di Luca Ferri. Verrà proiettato in streaming mercoledi 10 giugno, alle 21, in anteprima italiana al Biografilm Festival - International Celebration of Lives

Lettura 5 min.

Luca Ferri, regista bergamasco che nella vita fa tutt’altro, è una figura decisamente atipica rispetto al panorama cinematografico del nostro Paese negli ultimi anni. Entomologo di un’umanità emarginata o eccentrica, ne coglie tutta la preziosa e radicale umanità, girando le sue opere in formati non convenzionali, con un’impronta letteraria che si lascia ispirare da autori come Manganelli, Buzzati e Flaiano.

La casa dell’amore” è la terza parte di una trilogia domestica che comprende anche “Dulcinea” e “Pierino”. È stato presentato al Festival di Berlino e ora giunge in Italia, poi verrà proiettato al Taipei Film Festival. Le opere di Ferri fino ad oggi sono passate a Locarno, Venezia e in tanti altri festival internazionali.

Al centro della narrazione de “La casa dell’amore” c’è l’ossessione della protagonista Bianca Dolce Miele – una transessuale di 39 anni che di professione fa la prostituta – per la fidanzata Natasha, una trans di origini giapponesi che vive temporaneamente in Brasile. L’ossessione, spiega Ferri “è un tema centrale in tutti e tre i lavori della trilogia. Poi per modalità e costruzione si differenziano avendo comunque sempre alcuni punti di contatto”.

LB: Questa se non sbaglio è la tua prima escursione nella sessualità.

LF: In modo esplicito e diretto sì, ma già in “Dulcinea” era presente. In quel film si omaggiano tre grandi opere: “Un’amore” di Dino Buzzati, il “Don Chisciotte della Mancia” di Cervantes ed infine uno dei miei feticci filmici, “A comédia de Deus” del maestro João César Monteiro.

LB: Sì, mi riferivo ad una sessualità esplicita. Guardando i tre film ho avuto l’impressione che siano caratterizzati dagli stessi temi, che in qualche modo creano una “gabbia”. In cui la costrizione contenutistica e formale diventa un punto di forza dell’opera.

LF: Sì. Ho sempre avuto la necessità di darmi dei limiti, anche per castrare sul nascere eventuali fantasie o divagazioni. In questi lavori il tema centrale, oltre all’ossessione, era lo spazio abitativo. L’impossibilità di uscire dall’appartamento. Restare sempre all’interno delle abitazioni mi ha permesso di avere un forte controllo formale e di costruire delle gabbie intorno ai miei protagonisti. Generalmente mi piace vedere il limite come opportunità.

LB: Ok, però come mai questo interesse per gli appartamenti e le loro architetture?

LF: In primis perché una delle mie più grandi passioni è l’architettura e poi anche perché dopo il deserto di “ab ovo” (un film di Ferri precedente alla trilogia, ndr), avevo voglia di misurarmi in ambienti ristretti. Ho trovato spazi enormi anche stando fermo. In qualche modo penso sia la lezione di Giorgio Morandi. L’eterno ritorno della lezione di Morandi.

LB: Un’altra “gabbia” è la marginalità nella solitudine e nella patologia (o nella solitudine della patologia). Il feticista di “Dulcinea”, l’outsider abitudinario Pierino, la transessuale Bianca Dolce Miele. Nel raccontarli non c’è pietismo o retorica, emergono invece per la loro umanità differente, curiosa e potente.

LF: Sono naturalmente attratto dalle persone o dai luoghi non centrali. Il limite, la provincia, l’autodidattismo e qualsiasi tipo di periferia umana o territoriale sono al centro del mio lavoro. Mi piace che tu abbia colto che non ci siano però né pietismo ne retorica. Generalmente si arriva a queste latitudini con questo un atteggiamento di questo tipo, nel cinema come nella letteratura.

LB: Immagino ci sia stato un lavoro di avvicinamento e costruzione di un rapporto di fiducia con queste persone…

LF: Per “La casa dell’amore” il tempo di avvicinamento e di conoscenza reciproca è stato molto più lungo che la realizzazione del film. La diffidenza iniziale era reciproca. Io avevo alcuni dubbi, perché questa tematica poteva essere un terreno scivoloso, mentre Bianca voleva capire cosa volessi davvero da lei. Solo il tempo e la frequentazione ci ha permesso di chiarirci le idee e di accorgerci che il film lo dovevamo fare. Per “Pierino”, conosciuto nel corso degli anni al Bergamo Film Meeting, si è trattato invece di un severo accordo formale. Per cinquantadue settimane, dal 1 gennaio al 31 dicembre ci saremmo visti ogni giovedì alle 10.30. Dulcinea essendo un film di pure finzione ha avuto una gestazione esclusivamente in ambito di scrittura.

LB: Tutti e tre i film hanno inoltre una sequenza temporale precisa. Perché?

LF: Esatto. Dulcinea un’ora, Pierino un anno mentre “La casa dell’amore” doveva essere una settimana. Ma vista la grazia e la potenza della sua protagonista ho preferito sabotare la settimana a discapito di un periodo più fluido e ampio. In questo caso la rigidità settimanale su Bianca avrebbe compromesso il film.

LB: Parliamo un momento dei formati. 16mm per Dulcinea, VHS e videocamera digitale per gli altri due. Hai voglia di spiegare questa attrazione per i formati non convenzionali, paralleli all’indagine su persone “altre”?

LF: Credo sia necessario scegliere il formato giusto a seconda di cosa stai trattando e della situazione in cui ti muoverai. Solo questo a mio avviso deve determinare la tua scelta. Trovo molto superficiale che si debba per forza usare l’ultimo formato tecnologico disponibile. Questa è una riflessione che ogni volta mi pongo come regista. Il supporto che scegli è determinante perché è parte integrante del linguaggio e della riflessione che questo aspetto porta con sé. Altrimenti pensando alla sola storia il cinema s’impoverisce e diventa succedaneo della letteratura. Louis Ferdinand Cèline diceva una cosa importante: “tutti hanno una storia, mille storie. Ne sono pieni i commissariati, pieni i tribunali, piena la vostra vita. A me interessano solo gli scrittori che hanno uno stile”.

LB: A proposito di letteratura, i due versi di Penna sono una chiave di lettura del film.

LF: Certamente. Avere una storia non è importante. Serve prima uno sguardo. E lo sguardo cresce se i tuoi interessi sono esterni all’ambito i cui ti muovi. Quindi avere una cultura non prettamente cinematografica ma debitrice anche di altre discipline arricchisce inevitabilmente il tuo immaginario. La frase di Sandro Penna calza bene per “La casa dell’amore” ma meno per gli altri film.

LB: Appena ho visto “Pierino” ho pensato invece che avrebbe potuto essere un racconto di Manganelli, che ne dici?

LF: Sono felice che qualcuno si accorga di questa prossimità con il lavoro del Sommo. Manganelli è uno dei miei riferimenti letterari e concordo sul fatto che “Pierino” possa essere un film Manganelliano. Fra i riferimenti citerei anche Thomas Bernard e Robert Walser. Loro non mancano mai.

LB: Un paio di domande conclusive. Tu invece di porti il problema di arrivare al pubblico, ti poni quello di autoimporti delle regole, che però poi diventano una sorta di guida per il pubblico. In questa scelta c’è qualcosa che riguarda te come persona, immagino…

LF: Penso che non si debba mai partire dall’idea di arrivare al pubblico per forza, me nemmeno il suo contrario. Si deve essere Giudici severi verso sé stessi ed i propri collaboratori. Il lavoro per poter “esistere” deve passare una fitta maglia di verifiche e riflessioni sul fatto se sia il caso o meno di licenziarlo pubblicamente. Cerco solamente di dare un ordine rigido e didascalico all’interno del mio operato anche perché sono profondamente affascinato dalla tensione verso la perfezione. Perfezione che ritrovo in alcuni oggetti di uso comune come le forbici, la tanica della benzina oppure in natura nello scorpione.

LB: Fare film per te è un lavoro “antiartistico”, molto pratico, senza vezzi autoriali. Cosa ne pensi del cinema di oggi?

LF: Il cinema di oggi per me non offre molti stimoli. Sono davvero pochissimi gli autori in attività che amo. Ma (per fortuna) non faccio testo visto gli entusiasmi che a volte vedo per la produzione contemporanea. Credo che a volte si sia perso la misura, ma soprattutto la memoria, di quello che nel corso degli anni è stato prodotto. Gridando al capolavoro per un film semplicemente riuscito perdiamo la bussola dell’orientamento, andando verso un preoccupante livellamento. La memoria storica di un linguaggio è fondamentale per avere gli strumenti di critica e comparazione rispetto a quanto prodotto nel corso degli anni. Altrimenti tutto diventa uguale a tutto e si rischia di non differenziare tra Fellini e Sorrentino oppure tra Manganelli e Baricco.

Sito Luca Ferri

(è possibile prenotare un posto nella sala virtuale del festival accedendo al sito mymovies.it)

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