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Amedeo Maddaluno, «purtroppo inevitabili le armi a Kiev, ma la guerra non deve essere fine a sé stessa»

Intervista. Per l’esperto, cofondatore del centro studi Osservatorio Globalizzazione, avere una visione politica e strategica è un passo fondamentale per pensare il futuro post-bellico. E sulla soluzione al conflitto il modello è quello “coreano”

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Militari ucraini a Bakhmut, 3 marzo (Foto Ansa, Carlo Orlandi)

Dall’Ungheria, qualche giorno fa, papa Francesco ha invocato sforzi maggiori per il raggiungimento della pace in Ucraina. Un traguardo, quello della pace, che, in uno dei suoi ultimi articoli, Gianni Minà definiva non un’opzione fra le tante bensì l’opzione fondamentale, da abbracciare senza se e senza ma, senza alcun tipo di remore o contrattazione. Eppure, dopo più di un anno dall’inizio del conflitto fra Russia e Ucraina, la pace non sembra certo prossima a venire e nessun governo europeo pare davvero interessarsi alla gestione degli scenari futuri, quelli che si prospetteranno una volta che la guerra cesserà.

Il pericolo, secondo Amedeo Maddaluno (bergamasco, analista geopolitico nonché cofondatore, assieme ad Aldo Giannuli, del centro studi Osservatorio Globalizzazione ) è che si concepisca questa guerra come fine a sé stessa, scevra da qualsiasi tipo di strategia e visione politica. Ma l’esperto (che, nel 2019, con goWare, ha pubblicato il libro «Geopolitica. Storia di un’ideologia») dice la sua anche su «Euromaidan» e sulla possibile risoluzione del conflitto.

FR: Amedeo Maddaluno, si dice «Ucràina» o «Ucraìna»?

AM: La prima pronuncia è quella utilizzata in Russia; la seconda è quella usata in Ucraina. Entrambe vanno bene ma l’accento, soprattutto in quest’ultimo periodo, assume un’evidente connotazione politica.

FR: Quella in Donbass è stata una sollevazione popolare o un’azione eversiva a opera di agenti russi infiltrati?

AM: Tutte e due le cose. E lo dico correndo il rischio di essere detestato da quelle che ormai, in Italia, sono diventate due opposte tifoserie di un’immane tragedia che, sui media e sui social, viene ridotta a una sorta di derby. La rivolta del Donbass del 2014 viene comprovatamente accesa da agenti venuti da Mosca (un nome su tutti: Igor’ Girkin). Accesa, come detto, ma non causata. Se in quella zona non vi fosse stato uno storico malcontento nei confronti di Kiev (e un malcontento contingente contro le derive più nazionalistiche e russofobe post-Maidan), quegli agenti non avrebbero trovato terreno fertile.

FR: È dal 24 febbraio 2022, ovvero da quando la Russia, con la sua offensiva militare, ha invaso l’Ucraina, che si assiste a un uso indiscriminato delle parole o, per meglio dire, a un graduale slittamento semantico, di senso. Pensiamo a Putin che definisce l’invasione come un’esercitazione militare e allo stesso Zelens’kyj che paragona la violenza russa contro il popolo ucraino alla Shoah. Il linguaggio della propaganda è lo stesso sia in Ucraina che in Russia?

AM: Un vecchio proverbio bergamasco recita: «En tèmp de guèra, piö bàle che tèra», in tempo di guerra le menzogne sono più della terra sulla quale camminiamo. La guerra è sempre scontro di propagande e di narrazioni. Figuriamoci nella prima guerra “social” della storia, narrata da giornalisti presenti sul campo ma, soprattutto, da tanti video blogger. Forse, quel che è più triste, è notare come, sempre più spesso, gran parte dei nostri media si adeguino a sposare una delle due narrative in modo acritico.

FR: Secondo Putin, dietro alla rivolta che ha fatto cadere il presidente filorusso Viktor Janukovyč, c’erano agenti stranieri occidentali. Per l’Ucraina, invece, «Euromaidan» è stata una ribellione in difesa della democrazia. Per lei cosa è stata «Euromaidan»?

AM: Dopo oltre vent’anni di corruzione e ruberie seguite al crollo dell’Urss, il popolo ucraino era giunto al limite della sopportazione. Kiev era stata sequestrata, se così si può dire, da clan oligarchico-mafiosi: un sistema di potere, agli occhi di gran parte degli ucraini, incarnato dalla figura del presidente Janukovyč. La decisione di ritirarsi dall’accordo commerciale con l’Unione Europea, inoltre, ha fatto da catalizzatore e da detonatore a un malcontento pluridecennale. Però, affermare come gli Stati Uniti (e alcuni Paesi europei come la Germania) non si siano pesantemente intromessi per anni nella politica ucraina, puntando sui propri oligarchi (come Julija Tymošenko) e attraverso un lavoro carsico, a livello di opinione, a opera di ONG filoccidentali, significa non dire la verità. L’Ucraina è stata una vittima, una preda, contesa tra grandi potenze globali e locali. Una nazione sfortunatissima che nessuno ha mai aiutato, ma che tutti, compresa la Russia, hanno cercato di rapinare.

FR: La minoranza russa è davvero discriminata in Ucraina?

AM: Quello del rapporto fra ucraini e russi, fra ucrainofoni e russofoni e fra ucrainofili e russofili (tre categorie non necessariamente coincidenti tra loro) è argomento che ha riempito le biblioteche. Posso dare una risposta chiara e netta: no, non è discriminata. Affermare che lo sia, è qualcosa privo di fondamento. È giusto dire, però, che dopo «Euromaidan» ci sono state delle derive russofobe. Penso, per esempio, alle quaranta persone bruciate vive, all’interno della Casa dei sindacati di Odessa, per mano degli ultranazionalisti ucraini.

FR: L’apparente avversione di Zelens’kyj a qualsiasi tipo di compromesso, l’immagine mediatica (militarista e machista), il passato come attore comico e il suo sostegno alla legalizzazione del gioco d’azzardo: davvero l’Europa e l’Occidente si possono riconoscere in lui?

AM: Il giudizio sulla figura di Zelens’kyj lo darà la storia, oggi è davvero troppo presto. È un personaggio con le proprie contraddizioni e i propri lati oscuri (come, per esempio, il suo rapporto con l’oligarca Kolomojs’kyj), ma anche con una certa dose di temerarietà: innegabile il coraggio che ha dimostrato rifiutando di lasciare Kiev. Del resto, anche la nostra politica italiana non è immune a figure ambigue, dal passato poco chiaro o prestate, quasi per caso, alla politica. Che l’Europa o l’Occidente possano riconoscersi o meno in lui è quindi del tutto ininfluente.

FR: La figura di Stepan Bandera (collaborazionista nazista nonché fra i responsabili della Shoah in Ucraina), è stata riabilitata, prima da Porošenko e poi da Zelens’kyj, in funzione anti-russa. Molti affermano come questa scelta debba essere contestualizzata. Ma davvero la figura di Bandera ha bisogno di essere interpretata? Anche Nestor Machno ha combattuto i russi. Perché non innalzare statue a Machno invece che a una figura controversa come Bandera?

AM: Perché Machno non era nazionalista, era un anarchico e un libertario e una nazione che vuole dar vita a un’identità deve automaticamente scegliere un mito fondativo divisivo, che crei un “noi” e un “loro”. Bandera non è stato l’unico responsabile della Shoah in Ucraina e non è stato nemmeno uno fra i responsabili principali. Ad ogni modo, una qualsiasi democrazia nordica si vergognerebbe di un personaggio simile. Come detto, però, l’Ucraina è un Paese che sta costruendo una propria identità e quindi cerca carburante al proprio nazionalismo: Bandera è il personaggio ideale. Ovvio che tutto ciò ha alienato i russi, i russofoni e i russofili, ma anche quella fetta di società ucraina che ripudiava e ripudia il nazionalismo. Vorrei però avanzare una piccola provocazione: Bandera è una figura che ha avuto rapporti organici col nazismo e, per quanto mi riguarda, basta a qualificarlo e a tracciarne un chiaro giudizio storico, politico e morale. Ma quanti nostri compatrioti italiani (che hanno giocato un ruolo fondamentale nell’ascesa del fascismo e avuto responsabilità ben superiori a Bandera per quanto riguarda la Shoah) sono ancora oggetto di una vera e propria mitologia e nostalgia politica? E l’Italia, a differenza dell’Ucraina, dovrebbe essere una democrazia matura e non ha una guerra in corso sul proprio territorio dal 2014.

FR: Lo scorso novembre, Stoltenberg ha affermato come la NATO addestrasse l’esercito di Kiev già dal 2014. Il Papa, a maggio 2022, diceva invece come l’azione del Cremlino potesse essere stata legata «all’abbaiare della NATO alle porte della Russia». Davvero la NATO non ha nessuna responsabilità in questo conflitto?

AM: La NATO di responsabilità ne ha molte ed è parte in causa di questo conflitto. Fornisce agli ucraini armi e addestramento. Non può quindi essere un ente in grado di mediare. L’unico contributo che la Nato può dare alla pace è un contributo di deterrenza (tenendo lontano i russi dalle repubbliche baltiche o dalla Polonia). I rapporti Occidente-Russia sono però un totale disastro da sempre. Non si è davvero mai investito abbastanza sulla democratizzazione della Russia, si è arrivati addirittura ad applaudire El’cin che bombardava il parlamento e ad accogliere Putin a braccia aperte nonostante si sapesse da sempre come la pensasse sul mondo (e sui giornalisti e sugli oppositori). Mentre si perdeva tempo a coccolare un’élite russa composta da oligarchi ed ex agenti del KGB, si ignorava l’impoverimento economico e morale di quella nazione, dovuto anche alle terapie shock, durante gli anni Novanta, a opera del Fondo Monetario Internazionale.

FR: Perché Putin ha invaso l’Ucraina? Quale può essere la soluzione a questa guerra?

AM: Cosa ci sia nella testa di un uomo sempre più solo al comando non si può sapere e, a mio avviso, non ha nemmeno senso chiederselo. Una soluzione a questa guerra può invece esserci ed è “alla coreana”. È evidente che i russi a Kiev non arriveranno facilmente e che gli ucraini difficilmente entreranno a Doneck o Sebastopoli e che, se anche ci riuscissero, dovrebbero poi domare una popolazione in buona parte a loro ostile. È inutile girarci attorno: si dovrà tirare una riga. Mosca dovrà rinunciare a ogni velleità di ricostruire l’impero con i carrarmati e Kiev dovrà rassegnarsi a perdere Crimea, Donbass e il “corridoio” di Mariupol, aree che peraltro già non controllava, dalle quali i civili filoucraini sono fuggiti e che per lei avrebbe un costo enorme ricostruire.

FR: Rifornire di armi l’Ucraina (Paese che non è membro né dell’UE né della NATO), fa parte della soluzione?

AM: Probabilmente, un’Ucraina senza addestramento e armi NATO avrebbe visto le proprie forze regolari crollare nell’arco di qualche settimana. I russi sarebbero avanzati almeno fino a Kiev e sarebbe iniziata una guerriglia atroce a opera di tutti quei civili ucraini che, legittimamente, non avrebbero voluto i russi in casa. Avremmo poi passato notti insonni a domandarci quale sarebbe stato il desiderio successivo di Putin: oltre il Dnepr? La Moldova? Tutta la Georgia? Non c’è uno scenario migliore e uno peggiore o uno non arrossato dal sangue. Sgombriamo dal campo l’idea che siano le armi a fare la guerra: è la guerra a fare le armi. So che è terribile a dirsi e che per i credenti come me sia fonte di immenso disagio, ma il problema non è la presenza delle armi, ma l’assenza di una visione politica e di una visione strategica. Inviamo le armi per impedire all’Ucraina di collassare. Ok, ma dopo? Abbiamo l’idea di come far finire la guerra? Abbiamo pensato a una via d’uscita vera? La guerra non può essere concepita come guerra di logoramento, fine a sé stessa. Ci si deve interrogare su come gestire al meglio gli scenari futuri, decidendo se l’obiettivo sia la pace in Ucraina o la sconfitta della Russia. Una sconfitta che potrebbe non arrivare e per la quale a farne le spese sarebbe il popolo ucraino.

FR: L’Italia è in guerra. L’articolo 11 della nostra costituzione è carta straccia?

AM: Siamo in guerra, non direttamente ma partecipandovi esternamente. Non sono un costituzionalista, ma temo che la parte di quell’articolo, in cui si afferma che ripudiamo la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali, sia carta straccia da tempo. Kosovo e Libia ce lo ricordano continuamente.

Amedeo Maddaluno sarà presente giovedì 11 maggio alle 18.30 in Fondazione Serughetti La Porta, per un incontro dal titolo «Sul bel Danubio non più blu».

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