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«Il dio disarmato» di Andrea Pomella: Aldo Moro e gli altri nei tre minuti che cambiarono la storia d’Italia

Articolo. Nel suo ultimo romanzo, lo scrittore romano ripercorre il rapimento Moro mettendo sotto la lente di ingrandimento i tre minuti di follia di via Fani, la mattina del 16 marzo 1978. Alla ricerca di una verità che sta nel territorio esclusivo della letteratura

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Agguato di via Fani, Roma 1978 (AP Photo)

Certamente è noto come attore e doppiatore ancor più riconosciuto, ma forse non tutti sanno che Francesco Pannofino è stato uno dei pochi testimoni oculari dell’agguato di Via Fani. Aveva diciannove anni, studiava matematica alla Sapienza. Andrea Pomella apre proprio con quel ragazzo – lo chiama semplicemente «lo studente di matematica» – la sua panoramica autoptica sul “corpo” dei tre minuti che segnarono la storia d’Italia la mattina del 16 marzo 1978. Tre minuti, tra le 9.02 e le 9.05: il tempo dell’agguato e del sequestro.

Un tempo che è il (poli)centro di irradiazione del romanzo, e che l’autore sceglie di dilatare come fosse una superficie sotto due dita a becco che si separano per zoomare. E allora si vede più vicino, ma anche da prospettive diverse, perché i protagonisti e i testimoni di quel fatto sono diversi: ognuno di loro è la faccia di un poliedro che del suo appuntamento con la storia custodisce l’unicità. C’è un riferimento più o meno esplicito all’«Anatomia di un istante» di Javier Cercas, alla serialità delle serigrafie di Andy Warhol, almeno al loro – diciamo così – principio filosofico: differenza e ripetizione affinché qualcosa si riveli, una verità, forse, che «ha a che fare con la percezione individuale e collettiva», come spiega Pomella. Poiché la verità storica e quella giudiziaria non competono alla letteratura.

Anche tra le pieghe di quello scarto si mantiene intatto il magnetismo che emana il caso Moro – e più in generale gli anni Settanta e i suoi protagonisti, con la vitalità che li contraddistinse anche a Bergamo, lo stragismo nero, il brigatismo – e che suscita una fame di conoscenza mai soddisfatta dalla verità storica e da quella giudiziaria, comunque imprescindibili. Il fatto è troppo importante, la portata enorme, una voragine troppo larga per non continuare a buttarci dentro lo sguardo per cercare di cogliere un riflesso inedito, la sfumatura che aggiunge o che in qualche modo pacifica, risolve: cosa, lo stiamo ancora capendo.

Fatto sta che pare una sfera di cristallo soggetta a un’instancabile divinazione, non del futuro ma del passato, alla ricerca di un responso oracolare che finalmente sciolga i nodi e qualifichi lo sguardo che gettiamo dal presente (un impasto di memoria e percezione individuale e collettiva), perché «ciò che accade alle 9.02 del 16 marzo 1978 continua ad accadere». Ne «Il dio disarmato» si entra allora in contatto con la materia viva, se ne tasta il polso per sentire il sangue che sbatte nelle vene. Pomella questa cosa la definisce così: «ciò che la storia passa sotto silenzio: dunque i sentimenti, i discorsi, le passioni, quello che rende i freddi fatti storici delle esperienze, prima di tutto, umane». E da romanziere aggiunge: «È qui che agisce l’invenzione. E tuttavia si tratta pur sempre di un’invenzione – per così dire – deduttiva, che rispetta le circostanze».

Dunque eccolo, di nuovo sotto i ferri di un narratore, il trauma della storia repubblicana. Ed è un’operazione che dialoga con quella di Marco Bellocchio nel suo recente «Esterno Notte», un mosaico di piani stretti sul personale oltre la dimensione pubblica e politica: «Così la famiglia è da sempre il luogo in cui [Aldo Moro] può lasciar scorrere le proprie angosce, l’indecisione, le sue piccole manie, è l’antro della grotta in cui il dio è disarmato, in cui depone i fardelli della forza e del potere per godere pienamente della propria disadorna umanità». In entrambi i casi – Bellocchio, Pomella – le fonti coincidono e sono determinanti: i memoriali scritti dai figli di Aldo Moro e dai brigatisti in primis . Tutti sguardi in soggettiva, parziali ma preziosi, perché da una parte acquistano valore consociandosi e dall’altra portano in dote il carico di quei dettagli “umani”, laterali e rivelatori, che danno voce al silenzio di cui parlava l’autore. I testimoni oculari, i parenti di Moro e delle vittime, gli stessi uomini della scorta, i brigatisti, Cossiga, Aldo Moro naturalmente, e soprattutto: le abitudini, i tic comportamentali, l’uovo al tegamino con la mozzarella, l’insonnia.

La struttura in cui si articola la narrazione non è nuova al romanzo storico contemporaneo italiano, e ricorda quella specie di “strategia della brevità” della lunga saga scuratiana su Mussolini e il fascismo: il “pedinamento” di un personaggio dentro una scena da tre-quattro pagine, e via verso un’altra prospettiva, o verso del materiale d’archivio (che in Pomella è un articolo di giornale, la trascrizione di una voce alla tv). Tuttavia l’autore si spinge oltre, e con il piglio del filosofo morale individua una specie di principio cosmico-naturale con cui prova a dare ordine al caos degli eventi, a definire un’ontologia metafisica da cui si è originato (anche) il buio che è stato il caso Moro. Qualcosa che ha a che fare con il bene, il male, la natura, la morale. È una lezione che arriva da Primo Levi e da coloro che hanno provato a dare una spiegazione a ciò che sembrava impossibile spiegare, a dire l’indicibile. Si cala infine dentro l’universo diegetico, e attraverso l’autofiction diventa personaggio-interprete di quello sguardo dal presente che attraversa i luoghi della storia oggi, si poggia incantato sui suoi cimeli – l’auto blu crivellata di colpi conservata in un museo – e si fa sorprendere dalle sue rievocazioni – il set cinematografico Rai in via Fani: proprio quello di Bellocchio.

È un valore aggiunto di cui le narrazioni sul tema, così inflazionato ormai, possono dotarsi: non solo ricostruzione dell’evento, non solo il valore di quella umanità a cui la letteratura dà voce “deduttiva” e verosimile, ma una componente meta-letteraria che rifletta su come l’evento è percepito, singolarmente e collettivamente, su quale sia la sua fisionomia vista da oggi, su come il portato immaginario si traduce in parola scritta o in materiale audiovisivo – in una narrazione.

Sarà sempre più importante continuare a ragionare sui come e sui perché si racconta la Storia, senza smettere di considerare la Memoria un processo vivo, costantemente in divenire, non svincolabile dal presente ed esposto a instancabili tentativi di corruzione e manomissione. È una sfida che, soprattutto nel racconto degli anni Settanta, oggi è più aperta che mai.

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