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Nel bosco degli uomini irrisolti con Sandro Campani

Articolo. “I passi nel bosco” (Einaudi) è l’ultimo libro dello scrittore emiliano. Onestà, sradicamento, rancore e una lingua che, nella polifonia dei racconti, risuona come la terra da cui proviene

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(Cory Winston da Unsplash)

La prima volta che ho incontrato Sandro Campani era in una zona industriale di Modena, un centro sociale decisamente senza pretese. Lui era lì con gli Ismael, la sua band. Io con la mia, i Bancale. Mi ricordo che era una domenica sera, nel posto faceva un freddo porco, da mangiare c’era poco o niente, ma le persone ci avevano accolto bene – la situazione quasi standard di quando si va in giro a suonare: pizze nel cartone, hummus, pastoni vegani, quelle cose lì.

Sandro e gli Ismael salirono sul palco per primi, noi dopo. Gli Ismael, allora al secondo disco, oggi al quarto, sono la classica band di culto che se ne frega dell’hype, suona poco ma con una bella intensità. Allora non erano bravi come oggi, Sandro non aveva ancora scritto le canzoni degli ultimi due dischi (che si chiamano “Ismael III” e “Ismael IV”, maghi del marketing proprio), ma la sostanza c’era e soprattutto c’era la postura: Sandro seduto al centro, la chitarra tra le braccia e i compari intorno. Presenza di palco zero, pose da rocker nessuna. In sintesi una specie di De André periodo PFM, dove Sandro fa il cantautore e gli altri Ismael sono dei figliastri ben cresciuti dei Sonic Youth con l’innesto di un sax che spinge mica male e fa molto E Street Band (qui sono birre che mi dovete).

Perché racconto tutto questo? Per farvi capire come sia possibile scrivere dei libri con l’onestà di Sandro. Avete presente quegli scrittori con il loro bello stampino? Il maledetto, l’eccentrico strano, l’intellettuale occhialuto etc. Sandro è l’esatto contrario di tutti questi. Una persona apparentemente normale, uno per cui la scrittura, e solo quella (non la promozione, non i post su Facebook per friggere un po’ di aria sul fatto del momento), è ciò che conta. Oggi di gente che sembra sempre pronta a scrivere un libro ce n’è in giro parecchia (barbetta, occhiale tondo, Moleskine in tasca). Di lui, che di mestiere fa il grafico nel settore ceramico e scrive la sera e nel weekend, non diresti mai “è uno scrittore”. Eppure.

Prima dicevo dell’onestà di Sandro. L’onestà è un argomento che ci vuole niente a fraintenderlo. Cerchiamo di sgomberare il campo: onestà non vuol dire verità, neanche verosimiglianza. L’onestà riguarda semmai il modo con cui uno prova a tirare fuori da sé un’esperienza personale – con cui di solito deve fare i conti – per portarla a un livello collettivo (se si è bravi bravi, addirittura universale: tipo gli scrittori che hanno travalicato il loro tempo). Quando uno fa tutto questo senza furberie e incantamenti che nascondono il nulla, allora quella è onestà. D’altra parte che si scrive a fare se non c’è qualcosa da regolare? Bruno Lauzi diceva che lui, quando era felice, usciva, non scriveva canzoni. Aveva ragione.

Comunque, l’onestà è qualcosa di spinoso. Perché quando irradia da un testo, non puoi fare altro che confrontarti. E se tutto funziona come si deve allora il libro parla di noi a noi. Lì da qualche parte fra la coscienza e l’intenzione sono vergate. La letteratura serve (anche) a questo, rimisura le persone: a volte ci accorgiamo di essere piccoli, a volte medi. Chi pensa di essere grande, di avercela fatta davanti, chessò a “Delitto e castigo” di Dostoevskij, forse ha letto male e non ha capito.

Per Sandro questa onestà è una pratica. Nei suoi libri non c’è una parola in più, una frase fuori posto. Ogni pagina è il frutto di un lavoro di artigianato dove la lima fa saltare schegge di legno con cui poi accendiamo il fuoco nella stufa. Il fuoco, il fiammeggiare che scalda e brucia, quella cosa che potrebbe essere la perfetta definizione di cosa è la letteratura.

Nei libri di Sandro quel fuoco c’è: penso fermamente che lui, in questo momento, sia uno degli scrittori italiani che vale la pena leggere. Non lo dico perché è un mio amico – e ovviamente se glielo fai notare sorride con quel tanto di imbarazzo che non è mai artificioso. Lo dico perché è così: lui prova un’ammirazione devozionale per scrittori suoi contemporanei che non valgono un decimo di quanto pesa ciò che ha pubblicato fino ad oggi.

L’onestà dicevo, sì. Ma c’è una cosa che a Sandro, dal primo libro all’ultimo, è rimasta sul gozzo. È il rospo che ad ogni nuova storia viene sputato fuori con quel misto di sofferenza, intensità, dolcezza e pietà della sua scrittura. Lo sradicamento. Quel processo che almeno dalla seconda metà del Novecento ad oggi ha subito la provincia italiana. Assistendo allo sgretolarsi di tutto un insieme di tradizioni, immaginari e competenze che formavano l’identità collettiva e individuale di un popolo, zona per zona, epoca per epoca, infanzia per infanzia, vita per vita.

Lo sradicamento riguarda ciò che abbiamo addosso, radici che rinsecchiscono e rami che si ammalano, un qualcosa che ha a che fare con la morte di un mondo. Senza voler essere l’ultimo giapponese nella foresta a cui nessuno ha detto che la guerra è finita, Sandro lavora su una lingua che risuona della parlata dei suoi luoghi. Una cadenza dell’anima che suggerisce come quest’ultima stia trasmutando, eppure resista ancora. Una forma di nostalgia feconda per una mancanza che si fa sentire. Un tentativo di redimere cosa?, quando?. Forse prima di tutto sé stessi. Per questa lingua non a caso ho usato il verbo “risuona”. Perché Sandro appartiene a quella genia di scrittori per cui la scrittura deve suonare. La controprova è una lettura a voce alta, quando lo senti il ritmo, il battito di un cardio unico, veritativo.

Lo sradicamento, dunque, e il rancore. Le tappe che anticipano e seguono l’irrisolutezza. “Il giro del miele” e “I passi nel bosco” sono gli ultimi due libri del nostro, usciti per Einaudi, l’ultimo a inizio marzo. Entrambi, a modo proprio, raccontano di persone irrisolte, a cui le sconfitte della vita hanno lasciato una dose massiccia di disincanto, rimpianti, rabbia e smarrimento. Il rancore sta da quelle parti. Tutti hanno qualcosa di irrisolto, grande o piccolo che sia, chi può dirsi compiuto? In una zona da qualche parte sull’Appennino tosco-emiliano viene messo in scena un luogo geografico ed esistenziale popolato da personaggi che ritornano nelle varie opere. Le due citate e prima ancora “La terra nera”, i racconti di “Nel paese del Magnano”, “È dolcissimo non appartenerti più”.

Per esigenze di spazio mi soffermo solo su “I passi nel bosco”, l’ultima opera dove tutto quanto è stato raccontato fino ad ora trova forse la sua quadra espressiva più efficace. Un romanzo a più voci, d’impronta faulkneriana, per raccontare un tratto di storia, ovviamente irrisolta. Un bosco da pulire rappresenta un labirinto di vite che si incrociano, il suono delle motoseghe, ognuna differente. Chi partecipa al taglio del bosco cerca di rimuovere i rami che impediscono di andare avanti: e i protagonisti si ritrovano lì, nella selva vicino all’albergo diffuso della Betti, la cui costruzione sembra lunga una vita.

Luisa, la barista del paese. Francesco, il notaio, padre di Antonello e di Daniele. Antonello, il maneggione, quello che sa sempre come fare i soldi. Daniele, detto Danielone, ex promessa del ciclismo oggi con una pancia tripla. E poi Oreste, il giardiniere, Emilia, moglie di Ettore (lui taglia, lei spettegola) e il piccolo Beniamino con il gatto Soffione. Alcuni raccontano con la loro voce – che è una mimesi esatta degli animi: Luisa è schietta e lirica, Antonello greve e arido – altri vengono raccontati. Non tutti dicono la verità, a volte si contraddicono, sempre fanno i conti con il fantasma, la presenza assente, Luchino.

E dove andrai Luchino, / con la moto di tuo padre dove andrai? / Andrai dove noi non abbiamo il coraggio – / e valicherai l’Appennino / sopra gli svincoli che danno vertigine, / e nelle gallerie dove avanzano a piedi / i barboni col carrello del Lidl” sono i primi versi di “Ismael IV”, disco che rispecchia le storie de “I passi nel bosco” e ne accompagna il sentore con lunghe cavalcate elettriche e un’impronta di cantautorato rock di quello buono, che non tradisce. L’uomo torna ogni tanto in paese con la sua aurea di storie incredibili e lingue sul tamburo a ventilare chissà quali balordaggini. È la persona che quasi tutti vorrebbero essere, per il (presunto) coraggio e l’unicità di una vita che sembra realizzata. Ma qualcuno con lui ha dei conti aperti, qualcun altro una volta gliel’ha fatta pagare.

Tutti comunque lo aspettano nel bosco, ma Luchino, che fa Vittorio all’anagrafe, ovviamente non arriva. Quando la sua Peugeot 206 perfettamente non è parcheggiata storta, lo trovate in giro con Beniamino. Incrociano in auto Antonello, a cui Luchino una volta ha rubato Caterina, proprio quella che stava sulla quercia e quasi sembra ancora lì. È Antonello, il “vincente” che non guarda in faccia a nessuno, ad accostare nell’erba per cedere il passo. Ancora una volta è stato sconfitto, o forse in fondo in fondo hanno perso tutti.

Link foto:

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