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Il Grigio, l’importanza del messaggio di un cantautore sulla strada dell’hip-hop

Intervista. Tre live-video di altrettanti colori che anticipano diverse novità nel percorso del musicista bergamasco. Ci siamo fatti raccontare da dove nasce e in che direzione sta andando la sua musica

Lettura 5 min.
Il Grigio

Dario Pellegrini è un cantautore bergamasco che vive a Trento. Con il suo progetto Il Grigio si colloca al crocevia tra una tradizione di chitarra e voce e un’attualità figlia di ascolti hip hop e nu-soul. Attivo dal 2018, ha pubblicato due EP e diversi singoli, e recentemente ha condiviso tre video “colorati” di inediti presentati in veste live acustica. Lo abbiamo raggiunto per una bella chiacchierata in cui ci ha raccontato il suo percorso e le sue influenze, le direzioni future della sua musica e alcuni capisaldi della sua formazione.

LR: Perché Il Grigio?

IG: Mi ha sempre affascinato questa cosa dell’essere in mezzo tra due colori, il bianco e il nero, il cantato e il rap, che è anche la mia espressione musicale. Che poi anche quando faccio delle parti rappate mi viene da cantare lo stesso, perché sono molto legato alla melodia.

LR: Ad un certo punto ti sei spostato a Trento e ti sei dedicato al songwriting in solitaria, mentre prima avevi una band, giusto?

IG: Quando mi sono spostato a vivere a Trento le cose con la band ovviamente sono finite. Scrivevo le mie canzoni chitarra e voce e suonavo in giro per contest musicali dove magari c’erano cinquanta band e un pirla col chitarrino, che ero io (ride, ndr). Il Grigio nasce nel 2018 quando ho scritto la canzone anonima e ho conosciuto Diego (Rotshko), che mi ha aiutato a fare il disco. Otto canzoni che abbiamo diviso in due volumi, il primo un pochino più grezzo e “scuro” e il secondo più “chiaro”, con canzoni più mature. Poi ho fatto due singoli, uno in mezzo ai due EP e l’ultimo nel 2020 (“Avrei Bisogno di Parlarti”, ndr).

LR: Come nascono i tre video “colorati”?

IG: Ho iniziato a suonare con un altro percussionista che mi ha proposto di fare dei video con le nuove canzoni che avevo scritto. In realtà l’idea iniziale era di andare in giro a suonarle in due, anche perché mi ha un po’ stancato questa cosa di essere sempre solo io con la mia chitarra. Infatti prossimamente condividerò un nuovo singolo in cui di chitarra ce n’è poca.

LR: Per te l’importante è sempre stato veicolare il messaggio…

IG: Anche se il fatto di essere da solo con la chitarra è un po’ limitante dal punto di vista musicale. Però il messaggio arriva dritto in faccia, anche perché live mi ritengo molto più efficace che non sui dischi, dato che nelle registrazioni trovo sempre qualcosa che avrei potuto fare in modo diverso, quindi mi ritrovo a registrare la stessa take tipo cinquanta volte e poi magari utilizzo la prima che ho fatto perché mi interessa l’immediatezza della cosa. L’idea dei tre video era quindi quella di portare un live in casa: la resa finale è spesso rivedibile, nel senso che magari stecco una nota o magari la chitarra e il cajon in certi punti non sono proprio super a tempo, ma va bene così: volevo qualcosa di genuino.

LR: In base a cosa hai scelto le tre sinestesie?

IG: Nei tre video siamo sempre nello stesso posto, che è la sala superiore della Bookique a Trento, uno dei pochi posti qui dove si fa musica indipendente live. La scelta dei colori è stata molto semplice: avevo questi tre pezzi e me li sono sempre immaginati di quei colori lì. Ho sempre avuto questa cosa, non so se capita anche ad altri, che quando sento un pezzo indipendentemente dalla grafica del video o della copertina del disco ci associo immediatamente un colore e un immaginario visivo, e capita anche con i pezzi che scrivo. Per dire, “Una Vita Fa”, che è forse la più aggressiva e movimentata delle tre (anche il video è meno statico), me la sono sempre vista verde.

LR: Da appassionato di hip hop sono curioso di sapere quali rapper ti hanno influenzato nella scrittura.

IG: Il mio rapporto con il rap è sempre stato un po’ strano. All’inizio non lo capivo proprio. Da ragazzino andavo molto per osmosi, nel senso che ascoltavo quello che ascoltavano le persone vicine a me. La cosa più hip hop che sentivo erano i Linkin Park quando rappava il Mike Shinoda di turno, quindi una cosa diciamo abbastanza crossover. Poi piano piano mi sono avvicinato alla scena rap nazionale ma in modo piuttosto adolescenziale: ascoltavo Noyz Narcos, Nitro, Salmo. Cose che andavano nel mainstream di quando avevo diciotto anni, ma che a quell’età non capisci veramente. Poi sono rimasto folgorato da “Educazione Sabauda” di Willie Peyote. L’ho sentito quando avevo diciannove anni e lo ascoltavo praticamente tutti i giorni, ho continuato a metterlo su quotidianamente fino al secondo anno di università. Per me è stato una folgorazione dal punto di vista lirico: se ho iniziato a scrivere come scrivo anziché continuare a fare punk-rock è grazie a questo disco. La cosa figa del rap è che ti arriva subito il messaggio, al di là della metrica figa o del tecnicismo che a me personalmente interessano relativamente.

LR: Anche Willie è sempre stato a metà tra rap e cantautorato, in effetti ha avuto un percorso abbastanza simile al tuo.

IG: Anche lui ad esempio è sempre stato molto fan di Fibra. Anch’io mano a mano che apprezzavo il genere (Dutch Nazari, Mecna) l’ho apprezzato sempre di più. “Mr. Simpatia” è un po’ un discorso a parte, perché è vero che è immediatezza allo stato puro ma è il disco di uno spostato, fatto apposta per essere quello.

LR: È il disco di una maschera.

IG: Esatto, e ci sta che la cosa funzioni perché crea un sacco di scalpore e attira tutta quella gente che voleva sentirsi dire quelle cose lì, perché le capisce come disco di una maschera o perché magari dentro di sé vorrebbe farle davvero. “Turbe Giovanili” invece mi piace di più, perché anche quello arriva subito, è molto intellegibile ed è quello che mi piace del rap. Perché è un genere che in due versi riesce a rendere un pensiero a cui non ero mai arrivato oppure che magari ho sempre avuto dentro ma che non riuscivo a dire.

LR: Ultimamente cosa ti piace?

IG: Il panorama italiano attuale non mi fa saltare sulla sedia. Non sono un gran fan della deriva trap, anche se ne apprezzo alcune musicalità. Ultimamente mi sono avvicinato molto a Mac Miller, mi piace Loyle Carner. Cose che si muovono nello stesso ambito da un punto di vista lirico, ma hanno radici diverse musicalmente. Se ti dovessi dire cosa mi piacerebbe fare con il mio prossimo disco e le mie prossime cose, ti direi qualcosa di simile a questo.

LR: Dalla tradizione del cantautorato hai preso qualcosa?

IG: Meno di quanto sembra: anche se è la mia cifra stilistica mi rendo conto che c’è un sacco di roba che non ho mai approfondito. Se però ti devo dire le due cose che mi sono ascoltato di più allora Bob Dylan, grazie a mio padre, e De Gregori. Quest’ultimo in realtà esula un po’ dal discorso dell’immediatezza che ho fatto, perché è un po’ più allegorico: non ti comunica subito il messaggio ed è finita lì. L’indie italiano invece non mi fa volare. Mi piace Frah Quintale, mi piaceva il primo Calcutta, quello di “Mainstream”. Quello che mi sta un po’ stretto dell’indie italiano è una ricerca diversa dalla mia delle cose da dire. Si segue più la musicalità del testo che il contenuto associato. Bello, ma non è tanto il mio. Mi piacciono molto gli Arctic Monkeys: nel loro primo disco usano gli stessi strumenti con cui è stata fatta la musica nei quarant’anni precedenti, e fanno una cosa che suona totalmente diversa.

LR: La tua penna muove da una prospettiva che è quella dello studente universitario. Pensi che nei tuoi pezzi sia riscontrabile anche un livello di lettura accessibile a chi non ha (o non ha più) quel retaggio lì?

IG: Penso che stia molto all’ascoltatore. Io sto cercando di aumentare la profondità dei piani di lettura. Ad esempio in “Tutto Regolare” ci si può fermare alla cronaca della mia giornata. Però poi alla fine della seconda strofa c’è “anche infrangendo le regole nessuno può evadere”, perché per me è questa roba qui, ma è tutto regolare per tutti. Il pezzo è molto pessimistico anche se è in maggiore. Il significato è che siamo tutti dentro questo gigantesco loop, per cui anche se provi a uscirne alla fine finirai in una routine che ti stabilirai da solo, e che ti piacerà di più o di meno. Citando un pezzo di Mistaman, il trucco è continuare a volere qualcosa anche dopo che l’hai ottenuto. E se non ti ritrovi in questa cosa qua poi alla fine diventa tutto regolare, tutto normale. L’abitudinarietà è un fondamento della società, ma sapere questa cosa non mi consola. Con tutto questo non sto cercando di legittimare quello che scrivo o di fare il figo, sta tutto in chi ascolta. L’importante è che alla fine arrivi qualcosa.

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