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Le Capre a Sonagli e «Funeral Rave Party»: come trasformare il sacrificio di far musica in una grande festa

Intervista. È uscito il 14 aprile il nuovo EP della band bergamasca. Un EP che sperimenta il passaggio ad una dimensione di autenticità, all’interno di una sorta di rituale psichedelico che gioca con l’idea della morte per tornare a saggiare un’autenticità tangibile, nella vita

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Prima di cominciare a raccontare il nuovo disco de «Le Capre a Sonagli» ci tengo subito a fare una precisazione inerente al titolo di questo articolo. Quando ho intervistato Beppe Falco, uno dei componenti della band, ha subito chiarito fare musica per loro non è mai stato un sacrificio ma è più da intendersi più come una vocazione. Mi piaceva immaginare, dopo l’ascolto di «Funeral Rave Party», che questo EP rappresentasse una specie di liturgia tribale che rende omaggio alla musica, all’istinto. Alla libertà di lasciarsi trascinare da un ritmo apparentemente inspiegabile che trova, però, un suo significato nell’abbandono del superfluo.

Il disco si compone di tre tracce e ognuno dei tre brani si dirama in tre mondi diversi, ciascuno caratterizzato da un punk straniante, ricco di contaminazioni e scintille primitivistiche. Il ritmo, irrequieto, a tratti nervoso e forsennato, fa da trampolino ad un’esperienza di danza profondamente catartica e quasi estatica, che culmina nell’elettronica più fisica e sperimentale.

Questo crescendo emotivo porta l’ascoltatore in un viaggio che spazia dalle radici afrobeat alla techno più contemporanea, in un connubio di suoni e stili che si fondono per creare un’esperienza sonora unica e coinvolgente. Non a caso, andando ad analizzare l’etimologia della parola «sacrificio», ci si può rendere conto di come il sacrificio non assuma originariamente il significato di dolore, crudeltà, dedizione sofferta. Il sacrificio si riferisce al compimento di un’azione sacra che, in quanto tale, celebra il sacro, celebra ciò che importa, celebra il valore che dà un senso a quello che siamo e alla vita, e non va trascurato, specialmente di fronte alla mutevolezza e all’aleatorietà del quotidiano.

Le Capre a Sonagli saranno sul palco di Bergamo NXT Station lunedì 1° maggio. Abbiamo scelto di farci accompagnare in questo viaggio da Beppe Falco, uno dei componenti della band.

CP: Ho studiato un po’ la vostra storia, che è cominciata addirittura nel 2010. Siete andati incontro a molte trasformazioni, quindi ti chiedo: chi sono e cosa sono oggi esattamente Le Capre a Sonagli?

BF: Le Capre a Sonagli sono sostanzialmente persone che nel corso della loro piccola grande storia si sono circondate da fidi collaboratori e che insieme a loro lavorano mettendoci cuore e passione. Più di dieci anni fa abbiamo iniziato questo progetto per andare un po’ contro tutto e contro tutti con il motto «facciamo davvero come cavolo ci pare e quindi non scendiamo a compromessi e vediamo cosa succede» e adesso, a distanza di tempo, semplicemente non abbiamo smesso di utilizzare questa filosofia. Ci sono ancora quei quattro ragazzi che oggi hanno solo sulle spalle anni in più e che hanno, ancora più di prima, il desiderio di fare di testa propria sbagliando e imparando dagli errori. Il tutto senza snaturare quello che è il loro progetto e consci del fatto che questa tipologia di musica e di proposta musicale non strizza l’occhio a nessuna moda.

CP: Come nasce il nome «Capre a Sonagli?»

BF: La risposta corretta è che è passato talmente tanto tempo che in realtà non ce lo ricordiamo più nemmeno noi. Però diciamo che è come se fosse stata un’apparizione divina. Gli altri tre hanno visto una capra a sonagli. E questa bestia mitologica poi rincorreva le loro nei giorni a seguire tant’è che abbiamo cominciato a sospettare che fosse il nome a venirci a cercare, piuttosto che il contrario. Oltre al fatto che ci sembrava funzionasse bene.

CP: Come spiegheresti questo lavoro ad una persona che non sa niente di voi e si approccia all’ascolto di questo nuovo disco?

BF: La scelta di mettere sul piatto un tema così importante e delicato come la morte dipende dal fatto che nel corso di questa nostra storia avevamo questo argomento ricorrente che volevamo snocciolare. Non chiedermi perché, ma finivamo sempre per parlare di morte, in maniera giocosa, ironica, ma anche seriamente. Quindi semplicemente abbiamo esagerato questa cosa, portandola alle estreme conseguenze e inserendo la parola «funeral». Si tratta di un’idea nata soprattutto dalla volontà di portare questo rituale sul palco, durante i live, dando vita ad un rituale collettivo che faccia ballare tutti. E quindi abbiamo creato un funeral rave party. Di conseguenza anche chi preme «play» e ascolta l’EP nelle cuffie sperimenta un’atmosfera sinistra, molto horror, funerea, che però ti fa ballare e dimenticare tutto. Abbiamo creato anche un videoclip in cui proprio abbiamo fatto un rave party all’interno di una location che abbiamo creato ad hoc. Abbiamo invitato tutta una serie di comparse, che insieme a noi si sono trasformate in esseri misteriosi che vivevano quell’esperienza. Il dato finale è che ci siamo divertiti tutti gran tanto, anche se eravamo tutti proprio coperti con dei teli neri e non si vedeva la faccia di nessuno.

CP: In una delle tre canzoni parlate della necessità di spogliarsi di ogni abito. Questa provocazione mi ha fatto pensare al concetto di habitus, che si riferisce all’insieme di predisposizioni e schemi di pensiero, frutto di condizionamenti sociali, che media le scelte degli individui. Ti faccio una domanda di contro: quali sono gli abiti ai quali proprio non riuscite a rinunciare?

BF: Questa terminologia è esattamente il fulcro di quel concetto che vogliamo far passare. Così, su due piedi, ti dico per noi che facciamo musica, gli unici abiti di cui non ci possiamo spogliare sono i nostri strumenti. Il punto è che per arrivare a dire queste cose abbiamo fatto un lavoro su noi stessi, di abbandono dell’ego, creando un immaginario un po’ ancestrale, un po’ horror e un po’ grottesco che unisce tutti nel live. E chi partecipa si sente libero di esprimersi come vuole, perché sa che a fianco ci sono persone che stanno sperimentando la stessa emozione e che non si sentono giudicate. Non a caso abbiamo deciso di non mettere le nostre facce nelle nostre foto promozionali, che sono frutto di una elaborazione di un’intelligenza artificiale che però abbiamo programmato noi e che mi piace definire artigianale.

CP: Definite questo disco ostinatamente autoprodotto, quindi ti chiedo: cosa significa mantenere la propria cifra stilistica facendo i conti col rischio di sprofondare nell’oblio?

BF: Quello di cui abbiamo preso consapevolezza e di cui siamo certi, rispetto al passato, è che adesso abbiamo veramente le idee chiare, perché finalmente riusciamo a mettere tutto a fuoco. Nel senso che tutto è pensato in maniera pulita lineare e non forzata. Prima c’era qualcosa sempre che non riuscivamo a capire, che non ci convinceva. Adesso siamo proprio quattro persone che insieme al team di collaboratori hanno creato una squadra che ha ben chiaro quel concetto che deve far passare e l’immaginario che si viene a creare. Ed è bellissimo perché siamo proprio uniti verso questo obiettivo. È come se i pianeti fossero per la prima volta realmente tutti allineati. Di solito mi faccio beffa di questo paragone con gli astri, ma stavolta l’ho capito e te lo posso dire. Siamo a fuoco, siamo a fuoco tantissimo.

CP: Come siete arrivati a questa consapevolezza?

BF: Il trucco sta tutto nello smettere di frazionare la tua vita. Non sei un lavoratore di giorno e la sera un musicista, sei un cameriere, uno scrittore e un musicista per tutta la giornata. E prima riesci a dirlo a te stesso prima il tuo inconscio lo capisce e prima tutto poi si adatta per fare in modo che tu sia sempre una scrittrice anche quando stai lavando i piatti o stai facendo altro.

CP: È difficile quindi oggi fare musica indipendente in Italia?

BF: Se dovessimo usare noi la parola «difficile» vorrebbe dire che stiamo facendo fatica. Fortunatamente, invece, quello che facciamo è il nostro sogno, come quando eravamo ragazzini. Bisogna pensare che in questo momento, e soprattutto in questo momento storico, fare il musicista in Italia richiede dedizione. E quindi lo vedrei più come una specie di vocazione, nel senso che anche se noi ci facciamo il mazzo comunque, poi noi siamo soddisfatti. Chiaro è che il nostro desiderio è anche condividere quello che facciamo, ma il fatto che piano piano ci siano ascoltatori nuovi, gente che apprezza quello che fai, ti gratifica.
Quando siamo partiti eravamo tutti giovani lavoratori o post universitari, quindi il tempo da poter dedicare a questa cosa era di più. Ma in questo momento quello che abbiamo notato rispettivamente è che anche dopo che diversi di noi si sono sposati e dopo quattro bambini e i lavori che diventano sempre più importanti, comunque le energie che dedicavamo alla musica sono le stesse che riusciamo a dedicare ora, quindi questo è proprio è un segnale che importante.
Se dobbiamo un attimo generalizzare, il momento fa schifo un po’ per tutti. Soprattutto post pandemia, ci sono più concerti che album da ascoltare e questo si ripercuote soprattutto sulle piccole realtà, come la nostra. Noi anziché metterci in tutto questo marasma, per tre anni non siamo usciti, non abbiamo fatto nessuna uscita o dichiarazione sui social. Tanto che le persone pensavano che ci fossimo sciolti. Invece, semplicemente stavamo costruendo uno studio nuovo, stavamo lavorando e non volevamo avere contatti con l’esterno. Adesso vorremmo rimanere fuori da queste logiche e suonare il più possibile, divertendoci ma anche divertendo gli altri.

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