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Paolo Angeli ha risuonato i Radiohead con la chitarra sarda preparata

Intervista. Venerdì 20 marzo il musicista sardo all’ex Oratorio di San Lupo per Bergamo Jazz Festival. Al centro del concerto il disco “22:22 Free Radiohead”, un’indagine sulla musica di Thom Yorke e soci con il suo strumento fra tradizione e sperimentalismo artigianale

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Foto Nanni Angeli

Martelletti, pinze, eliche, pedali, cavi, il vibratore di un cellulare, una molla. La chitarra sarda preparata di Paolo Angeli si fregia di piccole diavolerie rubate al quotidiano attraverso le quali il compositore coniuga tradizione e sperimentalismo artigianale.
Con un’identità musicale primitiva ma avanguardista e un approccio casereccio eppure avveniristico, Angeli è riuscito a rinverdire il ruolo di uno strumento sempre più periferico nella geografia della musica sperimentale. In un processo in continuo divenire: “praticare una convivenza quotidiana con questo strumento fa sì che ogni volta scopra qualcosa di nuovo” dice lui.

MR: E perché proprio un progetto sui Radiohead?

PA: Tornavo da una tournée intercontinentale con una sintesi del lavoro solista, confluito poi nel doppio album live “Talea”. Sentivo il richiamo di una radice più profonda: come tutti i musicisti di periferia ho iniziato dal rock ma i Radiohead ho iniziato ad ascoltarli solo tre anni fa, in modo totalmente casuale. In ogni album hanno chiuso un ciclo ed esplorato nuove idee. In qualche modo mi sono ritrovato in totale affinità, come approccio, per quella voglia di sorprendersi sempre.

MR: Un’indagine che avevi già intrapreso rileggendo, nell’album “Tessuti”, alcuni brani di Bjork...

PA: Considero Bjork e i Radiohead come due elementi di composizioni in ambito pop rock che hanno a che fare con l’avanguardia, ma che riescono a filtrarla con riconoscibilità melodica. Ciò fa sì che quella musica passi attraverso lo stomaco in maniera semplice, ma in realtà nasconde una ricchissima complessità. Proprio oggi ho ripreso il lavoro di “Tessuti”. E ho provato le stesse sensazioni emotive. Mi sono detto: ecco perché ho scelto questo repertorio.

MR: Con che criterio hai selezionato i brani dei Radiohead?

PA: Ho messo quelli che mi emozionavano di più. L’obiettivo era costruire un pathos finale, una nuova opera in cui la musica è smembrata in cellule e ricomposta in forma di suite. La suite mi permette di individuare punti di partenza e di arrivo e di tracciare un percorso lasciato all’improvvisazione, un racconto tra gli elementi. So che devo partire da A e arrivare a B, quello che succede nel percorso ogni volta è diverso. Come approccio somiglia a “Symphony for Improvisers” di Don Cherry: una macro-forma free che mantiene l’organicità della suite.

MR: Un viaggio in cui fai convivere struttura drammaturgica e improvvisazione libera...

PA: Io amo fare un paragone con la cultura marinara. Ci sono due maniere di vivere il mare. Quella degli yacht e dei motoscafi che lavorano di prepotenza, non importa la condizione: vanno dritti, seguono la rotta. L’altra è quella di chi si lascia trasportare dall’incognita della navigazione. Quindi ho una macro-struttura con elementi di approdo che conosco e scegliere il percorso per arrivarci mi permette estrema libertà. Forse anche di più di un contesto completamente free. Credo che l’improvvisazione libera sia un’espressione poetica che ha a che fare con la scienza, di conseguenza con la strutturazione. Più questa struttura ha maglie larghe, più puoi respirare.

MR: In questo modo la materia può cambiare pur rimanendo fedele a sé stessa...

PA: Sì, l’equilibrio della suite soprattutto dal vivo è interessantissimo. Può durare cinquanta minuti o un’ora e mezza in base a quanto dilati le transizioni, a come decidi di dividere i percorsi. Hai margini di libertà enormi. Dopo trentaquattro concerti continua a divertirmi tantissimo confrontarmi con questo materiale.

MR: Nel frattempo è uscito un tuo disco con Iva Bittová, “Sul Filo”.

PA: Racchiude tre concerti e credo ne restituisca l’immediatezza e la freschezza. Iva è una musicista straordinaria che seguo dagli anni Novanta e i nostri percorsi sono molto simili, veniamo da un background legato alla musica tradizionale, per me della Sardegna e per lei della Moravia. Di provato in quest’album non c’è niente, c’è piuttosto l’istinto alla composizione istantanea: nel momento in cui affiorava una linea melodica ci abbiamo costruito attorno un arrangiamento, improvvisando ma come lavorando su un brano strutturato.

MR: Quando si parla di te si usano sempre i termini tradizione e avanguardia. Come hai lavorato perché questa comunione avvenisse?

PA: Nel 1993 ho acquistato la mia prima chitarra sarda. Da una parte c’era Giovanni Scanu, il più vecchio chitarrista di musica tradizionale gallurese, di cui ero allievo. Dall’altra seguivo Fred Frith e mi ritrovavo a suonare la chitarra on the table utilizzando lo strumento solo in funzione timbrica e rumoristica. Quindi c’erano questi due mondi che viaggiavano in parallelo. La chitarra sarda preparata è stata la risposta a questo incontro. A dicembre compie venticinque anni e le modifiche sono avvenute con estrema gradualità: c’è voluto molto perché tradizione e innovazione convivessero. Da quando vivo a Barcellona la lente del Mediterraneo mi ha permesso di farlo in maniera più fluida e meno fratturata rispetto al passato.

MR: Nel tuo caso innovazione e avanguardia fanno rima con artigianalità e corporeità. Il corpo può avere ancora un ruolo nell’indicare nuove direzioni sonore?

PA: Assolutamente sì, e ti ringrazio per questa domanda perché coglie il cuore della mia poetica. Oggi ha ancora senso suonare la chitarra? Me lo chiedo spesso. È uno strumento del Novecento, essere chitarrista significa prima di tutto avere uno strumento meccanico che può essere assemblato e concepito in modi diversi. La mia sensazione è che, per fortuna, al centro della musica ci sia ancora l’uomo, che poi si serve di strumenti per esprimerla. I Radiohead di “The king of Limbs” sono partiti da strumenti acustici per ottenere un risultato che avrebbero ottenuto con batterie elettroniche.

MR: Per te invece come avviene?

PA: Il mio strumento ad esempio mi permette di ottenere il suono di un bordone dalla risonanza di un motorino vibratore di un cellulare inserito nella cassa. L’importante è ciò che arriva in termini musicali. Certo, il mio fascino è per le culture artigiane, dove il suono si modifica in modo analogico, con le mani; ho un approccio creativo che passa dal fare la musica proprio in termini manuali, questo è il campo mio di ricerca.

MR: Tutto ciò si lega anche al confronto con la digitalizzazione e la fruizione che della musica si ha sulle piattaforme digitali, su cui tu sei presente...

PA: Sì, e va considerato che la mia musica è concepita in forma-suite. Sulle piattaforme digitali l’ascoltatore medio ascolta i brani dei miei album, non i miei album. Di fatto già snaturando la musica per come io l’ho pensata. Però sono un fan della nuova tecnologia, sono molto affascinato dalle potenzialità del digitale e ritengo che lo sviluppo della musica online sia stato positivo. Non sono un conservatore: arrivo da un periodo in cui si ascoltava col mangiadischi, in mono. I musicisti pagavano migliaia di dollari per produrre un album che poi veniva ascoltato in mono da una cassa più piccola di un palmo di mano e che non restituiva niente delle frequenze originali.

Paolo Angeli nel 2015 ospite di NPR Music Tiny Desk Concert

MR: C’è poi tutta una parte relativa alla possibilità di spazializzare il suono...

PA: Questa è una frontiera che mi affascina tantissimo, soprattutto perché il mio strumento mi permetterebbe di farlo. In quel caso l’ascolto è immersivo, non è più stereofonico ma avvolgente, che è poi come sentiamo i suoni naturalmente: di fronte, dietro le spalle, sopra la testa. Il nostro orecchio percepisce il suono a 360 gradi, non solo left e right. La mia chitarra può essere spazializzata a 360 gradi. È sicuramente una nuova meta di sviluppo.

MR: Tecnica o sentimento: cosa credi serva maggiormente per fare grande musica?

PA: Entrambe, ma vorrei spezzare una lancia per la creatività più che per il gesto atletico. Coltivare la parte emotiva è fondamentale, ma la tecnica aiuta a facilitarne la trasmissione. Un musicista che ha confidenza con il suo strumento se deve pensare a dove mettere le mani già sta togliendo energia alla parte emotiva. L’equilibrio tra i due elementi è il segreto.

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