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Pier Adduce: «solo un vecchio “cane sciolto”, un matto anarcoide al momento ancora a piede libero»

Intervista. Il catramoso «Epifania in Via Campania» e «La bottiglia blu» sono i titoli rispettivamente del primo romanzo e dell’esordio solista del leader dei Guignol, usciti da pochi mesi. Domani, sabato 28 maggio, verranno presentati con una chiacchierata e uno showcase allo Spazio Terzo Mondo di Seriate (ore 21, ingresso libero)

Lettura 7 min.
Pier Adduce

Chi ha bazzicato la scena underground italiana degli ultimi vent’anni, e in particolare quella milanese, non può non conoscere Pier Adduce e i suoi Guignol. Autentico gruppo di culto che di recente ha sfornato una manciata di dischi di lodevole pregevolezza (due titoli su tutti: «Abile Labile», 2016, e «Porteremo gli stessi panni», 2018), i Guignol hanno ceduto il passo al solo Adduce, che quest’anno ha pubblicato un libro e un disco solista. Ne abbiamo parlato con lui.

LB: Due uscite a pochi mesi di distanza. Hai voglia di contestualizzarle rispetto al periodo della pandemia?

PA: Il mio romanzo è uscito a gennaio, il disco a marzo. Il romanzo è stato decisamente il frutto di una impulsività che mi ha colto nell’autunno 2020, nel momento in cui tutto precipitava verso una secondo giro di restrizioni (con conseguente annullamento di appuntamenti lavorativi che nel mio caso coincidevano con un tour coi Guignol). Quindi mi sono ritrovato a casa a rileggermi una ventina di pagine di un racconto abbozzato – lasciato in un cassetto quattro, cinque anni prima – decidendo di provare a riprenderlo, per poi ritrovarmi in breve – e sorprendentemente! – a sprofondarci dentro per 4/5 mesi almeno. Il disco è stato invece frutto di una mia più ragionata esigenza di tentare una via solista, per rompere un’inerzia di ventitré anni coi Guignol (in tutte le sue incarnazioni, vissute, gioite e sofferte...) e dopo essere stato pungolato a lungo da Giovanni Calella (produttore dei Guignol stessi dal 2014). Volevo tentare di “spezzare” un cerchio e una continuità, rimettermi alla prova senza il “cappello” e il nome di un gruppo appresso. È stato anche il mio modo di esorcizzare e reagire all’orrendo periodo storico che ci si parava davanti… Un personale atto di resistenza, umana e anche politica, in un certo senso.

LB: Tu, nelle canzoni dei Guignol, hai sempre raccontato storie, hai sempre avuto una penna molto narrativa. Il libro nasce anche da lì.

PA: Avevo la necessità di dare fondo, forma e più spazio, ad una serie di vicende, e vissuti, coi loro luoghi e dinamiche di causa ed effetto che ancora mi “ballavano” vividamente in testa, da anni. Ovviamente divertendomici anche: romanzando il giusto e deviando completamente dal dato reale attraverso un paio di trovate puramente di fantasia. Quelle che amavo da bambino e da adolescente in quanto divoratore di fumetti – fino alle poco più consapevoli visioni cinematografiche di film, di quegli autori che all’epoca nemmeno immaginavo quanto mi avrebbero segnato. Inoltre poi, lo sfondo, i luoghi e perfino alcuni dei personaggi del romanzo, solo appena ritoccati e ribattezzati, erano già fortemente presenti in alcuni dischi dei Guignol, come «Abile Labile» e «Porteremo gli stessi panni».

LB: Partendo dai testi, in cosa credi si differenzi «La bottiglia blu» dagli ultimi dischi dei Guignol?

PA: Forse viene evidenziata una dimensione personale, esistenziale più marcata… E il periodo storico, particolare, c’entra solo fino a un certo punto. In realtà è un disco ricco e denso di “esterni” e confronti con i lati più assurdi, violenti, aberranti e autoritari del nostro presente. È un disco di solitudini e abbandoni, di deserti interiori ma anche fisici, tangibili proprio. Tratta, in qualche modo, anche di quel tipo di violenza psicologica che costruiamo e adottiamo per noi e per il prossimo, e che digeriamo di buon grado, assuefatti come siamo alle bulimie del consumo e a esistenze e gesti con sempre meno senso e valore, stando costantemente esposti a un lavoro di degradazione, manipolazione, propaganda. Alcuni episodi però parlano anche di soggetti e sentimenti di strenua resistenza a tutto questo.

LB: E musicalmente?

PA: Il sound cercato è un misto di strumenti elettrici e acustici, come già mi è capitato di fare. Ma con un’intenzione diversa: con meno strumenti e presenze e con un incedere ritmico spesso prodotto elettronicamente. Io e Giovanni abbiamo realizzato il tutto, a quattro mani, su canzoni che avevo scritto e composto un anno prima di entrare in studio (più o meno), solo con chitarra e voce, o solo con un’idea di armonia vocale. Un’idea di narrazione in parte ossessiva, circolare e blues… e in parte più ariosa (con armonie più aperte...) e sospesa. Escludendo qui e là le ritmiche perfino, e dando centralità al cantato e alle atmosfere. Il resto è dovuto alla sapiente mano di Giovanni Calella del Diabolicus Studio, e al contributo di alcuni magnifici ospiti.

LB: «Epifania in Via Campagna» è un libro molto bello: si respira la periferia, l’asfalto, i parchetti sfatti, il disagio di un mondo ai margini, di persone che hanno anche pagato con la vita. Quanto c’è di biografico in questo “spaccato” dell’hinterland milanese?

PA: C’è quasi tutto di biografico, in bene e in male, salvo qualche rara licenza e qualche coloritura che ben si prestava ai luoghi, alle vicende e al mio personale scorrazzare, per diletto, o per il piacere dell’abbandono alla vertigine che riuscivo a trarre anche solo dall’aspetto ritmico all’interno di alcuni periodi del romanzo. In larga parte ci sono riferimenti a fatti, aneddoti, luoghi e persone realmente esistiti, viventi e non. Quelli più drammatici e crudi, con quelli grotteschi, o perfino divertenti e comici. C’è lo sguardo del mio alter ego bambino prima, e adolescente poi… Per come ho potuto re-indossare quei panni a distanza di quarant’anni o poco meno. Ho modificato però alcuni nomi, riferimenti e toponomastica per esigenze narrative e per il mio personale gusto.

LB: Per «La bottiglia blu» come mai hai scelto lo stesso produttore dei Guignol?

PA: Ho totale fiducia in Giovanni. In parte è stato lui a convincermi a tentare questo passo. È un’intesa umana oltre che artistica quella con lui. Sarà che abbiamo origini e provenienze molto vicine, oltre che gusti musicali affini. Siamo amici da un bel pezzo ormai. I Guignol sono – e restano – vivi e vegeti, ma era ora di tentare una via mia, e con Giovanni abbiamo lavorato benissimo in tutti questi anni, che fosse per Guignol, o Julitha Ryan (la cantautrice australiana con cui hanno realizzato il disco «The Winter Journey», ndr) o altri.

LB: In questo caso hai coinvolto anche amici e persone che già avevano gravitato intorno a te.

PA: Sì, alcuni li avevo “puntati” per chiedere un contributo, in base alle loro tipiche caratteristiche. Luca Olivieri con piano, organo, mellotron, elettronica, e con cui eravamo già da un pezzo in contatto; Massimiliano Gallo con cui già collaboravo in occasione di concerti vari, specie al Centro-Sud, e per le musiche di alcuni racconti, o con Julitha Ryan anni addietro. Sarah Stride per il timbro vocale e il carisma che riesce a mettere in ogni suo intervento. Barbara Eramo per la delicatezza e la lievità dei suoi colori vocali. Poi ho fatto realizzare il booklet del disco da Paolo Libutti, anche bassista dei Guignol, inserendo all’interno vari ritratti fatti a penna da mio figlio Leonardo.

LB: Nel libro la tua scrittura riecheggia in certi passaggi le tue radici meridionali. Da anni vivi a Milano e dintorni, cosa è rimasto in te del Sud?

PA: Sono nato a Monza, Brianza, nel 1970, da una famiglia di immigrati dal Sud, ma ho sempre vissuto tra l’hinterland e Milano. Al Sud ci andavo sempre da bambino, con la famiglia, dai nonni. Ci passavo anche due mesi per volta, d’estate, negli anni ‘70 e primissimi ‘80. Mi è rimasto molto, soprattutto a livello sensoriale: la luce, i colori, gli odori, i suoni e la quiete, il movimento dell’aria in campagna, o nel centro storico in cima a un paese posto a 300mt sul mare… L’idioma locale, il dialetto, il suono e il ritmo incalzante delle voci dalle finestre o nei mercati. Il rientro a casa a piedi, col mulo, degli ultimi anziani di quella generazione contadina che le terre le aveva sudate e riscattate, nel dopo guerra (pagandole anche con scontri e vittime) e che andava estinguendosi. La luce accecante del pomeriggio e quella sbalorditiva del crepuscolo, coi sui riverberi sulla piana, verso Matera o Taranto… Le speculazioni edilizie e gli scempi architettonici a rovinare le periferie di paesi e borghi antichissimi, i litigi, i giochi, le risate, le prime sigarette e le botte coi coetanei per i quali, venendo solo d’estate dal Nord, ero immancabilmente un elemento di curiosità o di scherno, a seconda…

LB: Tu puoi essere considerato un personaggio “storico” della musica indipendente italiana. Con i Guignol hai fatto il primo disco nel 2003, l’ultimo nel 2020, per un tale di dieci dischi fra ep e dischi lunghi. Cosa è cambiato secondo te in tutti questi anni nel fare dischi, nel rapporto coi locali e soprattutto nel rapporto con il pubblico?

PA: C’è stata una svolta epocale, tecnologia e media si sono presi tutto: mercato, politica, socialità, perfino la misura – di per sé già discutibile – del concetto di tempo e di qualità della vita legata ad esso. Di fronte a questo anche i linguaggi espressivi sono in buona parte stati spazzati via, o comunque si sono dovuti adattare al nuovo scenario, pagandone un prezzo altissimo, la messa al bando perfino, o la relegazione in nicchie di nicchie che già erano tali prima. La socialità, l’incontro, la dialettica, l’autonomia di giudizio, la capacità critica, il confronto faccia a faccia, lo scontro anche, viso a viso, non sono più tali in tempi così. Il rapporto con il pubblico ci vede quasi solo di fronte agli orfani di quello che fu, mentre i più giovani, che fruiscono di tutto, o quasi, attraverso la rete, YouTube, i social ecc… rappresentano delle piacevoli eccezioni, specie se tengo presente i loro diversi oltre che legittimi gusti. In ogni caso l’underground sta scomparendo… a me pare così già da un pezzo ormai. I due anni di emergenza pandemica credo siano stati l’apoteosi definitiva di tutto questo… ma probabilmente mi sbaglio per difetto.

LB: Oggi hai 51 anni, hai suonato in quasi tutti gli angoli d’Italia, ne avrai viste di cotte e di crude, hai voglia di raccontarci qualche aneddoto?

PA: Ci vorrebbe una pubblicazione apposita per gli aneddoti, molti sarebbero pure sconvenienti da raccontare. Comunque qualche sera fa ricordavo un concerto a Frosinone di molti anni fa, con un ciociaro coi capelli alla Elvis, impomatato, che saltò a ballare sul nostro palco dandomi in faccia del «gajardo» e «der diavolo!!!». Oppure quando dormimmo in una palazzina di quattro piani dove ci riservarono un intero piano, open space, con lettoni di taglia mai vista, over size, arredato con colonne, marmi e suppellettili dal gusto neo classico – di un kitch mai visto! – che pareva di stare sul set di «Scarface», o in una serie sui Narcos.

LB: Mi ha sempre colpito di te il fatto che non molli mai, nonostante l’ambiente non sia facile. Come ti consideri? Un outsider?

PA: Sarà forse per il fatto che non mi sono né curato né apparentato mai con alcun ambiente davvero. No, probabilmente solo un vecchio “cane sciolto”, un matto anarcoide al momento ancora a piede libero.

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