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Quella volta che sono stato a Sanremo e ho capito che il Festival sta da qualche parte in un’altra dimensione

Racconto. Vi racconto l’incredibile umanità sanremese dei giorni del Festival. A cui venni inviato nel 2009 per scrivere di quello che vedevo. Ma ciò che mi colpì fu il contorno

Lettura 7 min.
(Afterhours, foto Gian Mattia D’Alberto)

Luca, quest’anno vai a Sanremo come inviato”. “Ah ok, da solo?”. “Sì, da solo, in sala stampa, racconti tutto quello che succede”. “Va bene, bello, ci sono gli Afterhours”.
Era l’inizio del 2009, il mio direttore di allora FP un giorno mi disse che dovevo andare al Festival. Per vedere un po’ quello che succedeva e tradurlo in una diretta continua sul sito de L’Isola che non c’era. Cioè la testata per cui scrivevo allora, tutt’oggi in attività. Una di quelle considerate giustamente autorevoli: la rivista dei cantautori, di tutto il giro Club Tenco e della musica di qualità. Che quell’anno andava in Riviera a dire la sua.

Giusto per rinfrescarvi la memoria, il Festival del 2009 era quello condotto da Bonolis e da Laurenti. Uno capace di inventare parole fra la genialità e l’imbarazzo come “varieganza”. L’altro irraggiungibile interprete della bavosa, la classica cosa talmente nonsense da far ridere più del dovuto. Era l’edizione con gli Afterhours, ma pure con “Luca era gay” di Povia – un pezzo davvero brutto che diceva cose ancora più brutte – e con tante altre canzoni che ci siamo dimenticati, come accade più o meno tutti gli anni per la maggior parte dei brani in gara. Vinse Marco Carta nei Big e Arisa con “Sincerità” nei giovani: il primo dimenticato velocemente, la seconda meno perché girò molto in radio e lanciò il personaggio-Arisa.

Dovete sapere che nel 2009 io credevo ancora nella musica indie, cioè indipendente. Quello che una volta si chiamava underground, un sottobosco florido di esperienze musicali da cui ogni tanto emergeva qualche nome. Facendo tutto un percorso che lo portava sull’orlo del grande salto, per cui Sanremo era un’occasione. I Subsonica nel 2000, gli Afterhours con “Il paese è reale” nel 2009. Poi ne arrivarono altri con alterne fortune.

In quel momento, avevo ventisei anni, ero ancora ingenuamente convinto che esistesse un orgoglio indie. Un modo diverso di fare le cose contrapposto al mainstream. Non ero fra quelli che accusava chi andava a Sanremo di essersi venduto, capivo le dinamiche che portavano a una scelta simile. Però continuavo a pensare che noi eravamo diversi. Un modo confortante e non privo di entusiasmi (miei, ma anche di tante altre persone) per trovare un’identità collettiva sconosciuta ai più, eppure chiarissima a noi che compravamo dischi, andavamo ai concerti e cercavamo senza tregua l’ultimo artista di una nicchia della nicchia da proporre agli altri con tutta l’euforia del mondo.

Insomma, nel 2009 non mi ero ancora accorto che l’indie stava passando dalla vanagloria di essere tale ad un più pragmatico “passare alla cassa” per riscuotere il frutto di tante fatiche. Non eravamo ancora ai tempi dello scioglimento di oggi dove indie e mainstream in Italia non esistono più. Tuttavia ripensandoci qualche segnale c’era e l’operazione degli Afterhours de “Il paese è reale” – la compilation contenente un tot di artisti indipendenti da proporre al pubblico generalista sanremese – aveva anche quel significato: allargare la nicchia. Anzi smettere proprio di esserlo e intanto ribadire che quello era il Paese vero, capace di esistere al di là della tv mentre la utilizzava senza rimetterci in quanto a identità.

Ho scritto tutto questo per spiegarvi come la vedevo io e come funzionava a grandi linee Sanremo allora: un mix di nomi storici (Albano che quell’anno scendeva le scale dell’Ariston e faceva il saluto militare), cantanti provenienti dai talent (Carta) e band per i giovani (gli After appunto). Più qualche sorpresa dalla sezione giovani, che quell’anno oltre ad Arisa tirò fuori una Malika Ayane di cui già si parlava un po’.

Tutto chiaro spero. Anche perché ciò che vi ho raccontato fino ad ora è la parte meno interessante. Sanremo non è solo quello che vedete in tv. C’è tutto un contorno e in fondo è questo contorno la parte più etologicamente interessante del Festival.

Nella settimana della kermesse l’intero mondo musicale italico, giornalisti, dj, addetti stampa, manager, produttori etc. è in quelle quattro vie più un casinò e un centro storico affascinante (la Pigna) che risponde al nome di Sanremo. Ma oltre a tutta questa fauna – in cui dobbiamo comprendere anche un bel manipolo di artisti che non sono né in gara né ospiti ma vagano per la città in cerca di qualche aggancio – oltre a questa fauna, dicevo, a Sanremo riaffiorano dalle viscere dell’oblio tutta una serie di personaggi di quella terra di mezzo fra tv e musica fatta di meteore, improbabili personaggi finiti in disgrazia, improbabili e tutta un’umanità grottesca per cui un film di Sorrentino a confronto è niente – oggi forse ci sono anche gli influencer vittime di un rapido fallimento, chissà.

Per farla breve e poi raccontarvi qualcuno di questi personaggi a Sanremo mancano solo la suora nana di “The New Pope” e la bambina artista in furore creativo de “La grande bellezza”. Dunque se vai come inviato nella “città dei fiori” non devi pensare che i fiori in questione siano una versione dei fiori del male di Baudelaire per un presunto sottoproletariato catodico, evoluzione della casalinga di Voghera di Arbasino e termine ultimo della decadenza culturale italiana.

L’atteggiamento giusto invece è quello di chi questo incredibile calderone – che non avrebbe ragione di esistere se non in quella settimana – lo prende alla leggera. Come viene viene. Godersi lo spettacolo di umanità varia dei dintorni dell’Ariston ed essere consapevole che per sette giorni si è in una dimensione parallela a sé, inesistente altrove. Un luogo fisico, temporale ma soprattutto immaginario che non è “lo specchio del Paese” come sentenziano certi sociologi da bar. E non è neppure un evento dove “le canzoni non sono mai al centro dell’attenzione”. Perché primo Sanremo non è un festival musicale ma un evento televisivo con dentro anche la musica. E secondo pensare di costruire un intero spettacolo su quelle canzoni per lo più risucchiate dal dimenticatoio in breve tempo è irreale: quindi super ospiti, polemiche (tante polemiche), colpi di scena e via dicendo.

Sanremo è un grande circo Barnum. Un rito religioso senza spiritualità. Un’accozzaglia di retorica e luoghi comuni che celano situazioni e personaggi impensabili. Di Sanremo parlano tutti, anche chi non lo vede e dice non lo vedo. Per quel breve periodo che ogni anno si ripete chiunque è un po’ direttore artistico o critico musicale. E vuole partecipare, dire la sua su questo paradiso pop di un Fellini decisamente sottotono.

(a proposito di Sorrentino: nella sottospecie giornalisti di questo compendio etologico sanremese ci sono i senatori egoriferiti, le nuove leve molto arrembanti, ma soprattutto il giornalista-intellettuale che ti avvicina con fare sgamato e mentre conversa con te infila un “secondo me oggi l’unica scena jazz interessante è quella etiope”: Sorrentino lì ci ha visto giusto, questi personaggi esistono veramente e della loro esistenza io sono stato testimone)

Dicevo all’inizio che a Sanremo ci sono andato nel 2009. In realtà c’ero stato anche nel 2008, ma ho pochi ricordi perché venni travolto dal tourbillon dell’evento. Uno di questi ricordi però riguarda Leone Di Lernia. Leone è stata la prima persona a cui ho stretto la mano nel primo giorno di Festival, al Palafiori – a Sanremo si stringono un sacco di mani e dopo qualche giorno non ti ricordi a chi l’hai stretta e se quel tale l’hai già conosciuto o no: una situazione su cui sono preparatissimo perché mi capita anche nella vita reale e ne esco sempre con somma eleganza.

Leone Di Lernia non è un personaggio vero e proprio. Leone Di Lernia è così. Persona e personaggio coincidono: quando lo incontrai io mi strinse appunto la mano, estrasse il cellulare dal taschino della giacca e con quel tipico accento di uno che non è mai andato via da Trani mi intimò di guardare la foto di una ragazza relativamente più giovane di lui sullo schermo del telefono. Spiegando a me, un emerito sconosciuto tramortito dall’incontro, che quella era la sua ragazza (non lo disse proprio così, ma magari ci sono dei bambini all’ascolto). Nonostante il primo impatto però l’autore di “Ra-ra-ri, ra-ra, pesce fritto e baccalà” covava in sé una certa simpatia. E oggi che non c’è più speriamo che “insegni il trash agli angeli”, come disse qualcuno quando morì.

Ecco, se di morte vogliamo parlare, dobbiamo dire che a Sanremo la morte non esiste. Nel senso che camminando per strada puoi incontrare Luciano Pavarotti, deceduto nel 2007 ma vivissimo da quelle parti ancora oggi. I sosia sono una delle figure più impressionanti che girano in città in quei giorni: alcuni perfettamente uguali agli originali, altri con qualche difetto di somiglianza, ma tutti convintissimi della loro presenza. Vivi anche se sono morti, mendicano le telecamere, una comparsata, spasmodicamente in ricerca di quei quindici minuti warholiani che per loro diventano cinque, uno, fino a dieci secondi, purché li vedano.

La ricerca di visibilità ha un dark side che io ho incontrato nella figura di Solange. Quel cartomante che ebbe un po’ di visibilità nei Novanta, per poi ricomparire se non ricordo male anni dopo in un reality. Quell’anno Solange girava a Sanremo in cerca di chissà cosa – probabilmente un grammo di celebrità come tutti gli altri – con un aspetto dimesso, i capelli non tinti, il viso triste, le sembianze di uno che non se la stava passando bene. Una specie di figura pop-bohemienne non priva di un suo pathos brevilineo nel trambusto di donne e uomini sempre sorridenti. In quella congiuntura di esistenze grottesche dove l’umanità diventa qualcosa di siderale e chimerico, eppure presente, vivo. Nonostante il successo sia un sogno da raggiungere con tutti i mezzi possibili per poi essere costretti ad abbandonarlo poco tempo dopo. Portandosi dietro tutta la tossicità dell’essere stati al centro dell’attenzione e poi al centro di un buco nero senza fondo. La fama, e poi la fame.

Ok, direte voi, ma tu in mezzo a tutto questo che cosa hai fatto a parte osservare? Beh, il mio mestiere, che è quello di raccontare come sto facendo ora. Chi come me lavora per una testata web durante la festivalata si fa un bel po’ di ore in sala stampa. Una sala stampa apposita, dedicata “a internet” (cito testualmente dal cartello all’ingresso) e alle radio. Quando dico radio intendo che in quello stanzone ci sono tutte le emittenti italiane che hanno deciso di soggiornare in Riviera. Comprese quelle che ad ogni cantante in conferenza stampa ponevano la stessa domanda con voce querula e un atteggiamento di malcelata aggressività: “Puoi fare un saluto agli ascoltatori di Radio Pomodorino?” (il nome è inventato).

Quindi tu hai davanti dei monumenti della canzone italiana come ad esempio Patty Pravo e l’unica cosa che riesci a chiederle, o che qualcuno ti ha ordinato di domandare, è un saluto. Alla quindicesima domanda uguale chi gestisce la sala stampa chiede alle hostess in sala di cercare domande più sensate. E allora c’è sempre un inviato di una testata autorevole pronto a fare una domanda più sensata: io. Oppure qualche collega che come me, assopendo ogni snobismo e intransigenza estetica, provava ad alzare il livello della conversazione. Capendo all’ennesima domanda di questo tipo che a Sanremo ogni tentativo di alzare il livello del discorso è vano. Perché questo benedetto livello che indigna tanti presunti intellettuali non è alto ovviamente ma neppure basso. È semplicemente Altro. Una realtà parallela in cui lui, il santo della canzone, alza gli occhi al cielo per ogni stramberia e poi sorride, lasciando intendere di stare tranquilli, che è solo un grande gioco e da qualche parte c’è uno stargate.

Com’erano alternativi gli Afterhours quell’anno, quando in sala stampa vennero definiti prog – Manuel Agnelli immobile, serafico. Come mi sentivo orgoglioso del mio orgoglio indie che aveva saputo lasciarsi trasportare dalla corrente senza finire annegato. Com’era tutto un bailamme assurdo, sardonico, a suo modo straordinario. Una caciara di grandi professionisti e grandi disperati, ognuno a cercare l’occasione giusta. Com’era veramente Sanremo quel Sanremo e ogni Sanremo prima e poi. Com’era una cosa divertente, che però non farò mai più. Forse.

Parapa-pappapapà / Parapa-pappapapà / Parapa-pappapapà parappapaapa / pa-paa-pa”.

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