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Vasco Brondi, dai CCCP che non ci sono più a quel giorno che ci toccherà morire (ma tutti gli altri no)

Articolo. La strada compiuta dall’ex Le luci della centrale elettrica – dal fulminante esordio di «Canzoni da spiaggia deturpata» agli ultimi due dischi «Terra» e «Paesaggio dopo la battaglia» – racconta di un percorso verso un’intensa forma di saggezza ancora incompiuta. Dove al centro c’è sempre di più l’uomo e lo «sporchissimo reale» in cui è immerso. Sabato 17 settembre a Bergamo NXT Station

Lettura 7 min.
Vasco Brondi (Valentina Sommariva)

Era il 2007 o giù di lì, allora scrivevo per MusicbOOm, una delle webzine più importanti del periodo, oggi defunta. Un giorno mi arriva a casa un pacchetto, che come al solito contiene un cd, un demo. Di un tale che si fa chiamare Le luci della centrale elettrica. Erano un bel periodo gli anni Zero, musicalmente parlando. Non che mancassero le canzoni politiche, c’erano, ma non erano così dirette come negli anni Settanta, non avevano neanche una vera e propria egemonia culturale che le accogliesse (come invece accadde per i vari Guccini, De Gregori, De André). Eppure i problemi c’erano, erano tanti, a partire da quello che la mia generazione fu tra le prime ad affrontare: il precariato lavorativo e parallelamente quello esistenziale.

Sono nato nel 1983, Le luci della centrale elettrica, nome dietro a cui – come sapete – si cela Vasco Brondi, è del 1984. Insomma siamo quasi coetanei. Apro la busta, metto il cd nel lettore e mi arrivano una mitragliata di parole in forma di canzoni ancora tutte da aggiustare, ma con un disincanto e un’urgenza intensa, penetrante; qualcosa che fino a quel momento non avevo mai sentito, almeno da quelli che avevano più o meno i miei anni o qualcuno in più. Una forza che in qualche modo sentivo mia , anche perché quei brani parlavano di provincia profonda, vite precarie, amori che non vanno mai a buon fine e lavori pure. Il tutto con un linguaggio nuovo, un impasto di citazioni dai cantautori storici, dalla cronaca e da tanto altro. Cantato, anzi no detto, anzi no urlato. Cantautorato, spoken word, punk.

Vasco Brondi è nato a Verona, ma vive Ferrara. Fa il barista e in questo demo che si intitola come lui – Le luci della centrale elettrica sono quelle della Montedison nel ferrarese – getta su uno sfondo di degrado iperprovinciale storie cariche di rabbia, radicalmente evocative; non si capisce tutto quel che dice, ma a ventiquattro anni canzoni così ti fanno sentire meno solo. Tuttavia il ragazzo ha bisogno di una “raddrizzata” nella musica (le canzoni sono tutte di due accordi e via) e negli arrangiamenti, ma anche nei testi che sembrano conati grafomani, e dal vivo: io e la mia amica N. andiamo a vederlo a Brescia, in un localino che se non ricordo male si chiamava Le Visionnaire, Vasco ci mette lo stesso impeto, fa un po’ di casino con la chitarra acustica e i pedali. Ma c’è, è materia grezza preziosa.

Di questa materia si occupa Giorgio Canali , uno che non ha meno urgenza e determinazione. Aiuta Vasco a mettere a posto i pezzi: aggiunge arrangiamenti (la sua chitarra elettrica, l’organo, qualche percussione sinfonica), corregge la scrittura là dove straborda un po’, ma non tocca i ritornelli tutt’altro che orecchiabili, anzi con il suo intervento sottolinea tutta l’esigenza di dire e l’abrasività originaria dei brani. Canali è un lucido pessimista, ma vitale ed entusiasta; si dice che quando in studio i pezzi riuscivano per il verso giusto saltasse dalla gioia. Il risultato si intitola «Canzoni da spiaggia deturpata», esce nel 2008, ed è qualcosa che lascia il segno. Perché negli ultimi vent’anni di songwriting italiano quel disco è una delle cose più personali, fresche, forse anche originali che siano uscite – e difatti Vasco ha pochissimi imitatori, e chi lo imita paga un pegno salato, come chi imita Paolo Conte. Ovviamente un disco così esplosivo divide: c’è chi grida al capolavoro e chi si indigna per uno che fondamentalmente non sa cantare (e lo ammette), non sa suonare ed esagera con la quantità di parole che infila a forza in ogni brano.

Chi scrive è dalla parte di chi urla al capolavoro: «Stagnola», «La lotta armata al bar», «La gigantesca scritta Coop», «Fare i camerieri», «Nei garage a Milano nord» sono canzoni di una penna che «scrive per accumulazione, nei versi associa obliquamente immagini su immagini come un Flavio Giurato grafomane, per poi urlarli in faccia al mondo con la stessa voce d’asfalto di Rino Gaetano, che viene direttamente citato nel finale di “Nei garage a Milano Nord”. E i pezzi di citazioni traboccano, che siano parole, atmosfere o entrambe le cose: Tondelli, Genna, Bianciardi, Pasolini e i CCCP che “non ci sono più da un bel po’” (“La gigantesca scritta Coop”), ma anche Bebsi Jones (suoi gli ultimi versi di “Fare i camerieri”) e il Fiumani più nudo e precipitante». Lo descrivevo così su L’Isola che non c’era «Canzoni da spiaggia deturpata», con la sua bella copertina di Gipi e tutto quel mondo di esaltazione e decadimento che sembrava così nostro, perché Vasco usava spesso la prima persona plurale: «cosa racconteremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni zero?»; noi che avevamo bisogno di «un po’ di carta stagnola per addobbare a festa questa stanza di merda».

Noi. Ma noi chi? Ricordo che «Canzoni da spiaggia deturpata» (Targa Tenco per la Miglior Opera Prima) uscì a maggio e in un giorno d’estate di quell’anno mi ritrovai con la mia amica N. a fare un giro in pedalò sul Lago di Endine e in quel momento, con la luce che sembrava benedire il verde delle montagne e il grigio-azzurro dell’acqua, mentre discutevamo delle canzoni de Le luci della centrale elettrica e di quanto fossero belle e vere, a me sembrava che in quegli attimi il mondo stesse dalla nostra parte. Che illuso: «Canzoni da spiaggia deturpata» venne subito definito un disco «generazionale», ma non lo era, o lo era solo in parte. Perché se avessimo avuto in quel tempo anche solo la metà del disincanto e della rabbia che Vasco Brondi spurgava con le sue canzoni, forse le cose sarebbero andate diversamente. O forse no, ma almeno ci avremmo provato. Sta di fatto che quel noi esisteva fino a un certo punto, era la minoranza di una minoranza, che comunque fece poco o nulla, me compreso. «Posso nascondermi dietro l’alone di una generazione / Che le rivoluzioni le pensa sul divano» cantavano qualche anno prima gli Amari in «Bolognina Revolution», e forse era quella una canzone veramente «generazionale».

Dopo «Canzoni da spiaggia deturpata», arrivò nel 2010 «Per ora noi la chiameremo felicità», titolo bellissimo tratto da un verso de «La solitudine» di Leo Ferrè. Canali è un po’ meno presente alla produzione e il contributo di musicisti come Rodrigo D’Erasmo, Stefano Pilia e Enrico Gabrielli arricchiscono di colori e sfumature una tracklist che – pur con qualche episodio riuscito, come il primo singolo «Cara catastrofe» – sembra la brutta copia del precedente, in certi casi addirittura una specie di parodia («L’amore ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici»). Ma è normale dopo un disco straordinario come il precedente – che era una specie di esplosione della realtà viscerale e anti-poetica – rimanere, passateci il termine, un po’ rintontiti da tanto fragore artistico. Se non fosse esistito prima «Canzoni da spiaggia deturpata», forse oggi definirei con lo stesso entusiasmo «Per ora noi la chiameremo felicità». Invece fu solo un disco di transizione verso qualcosa che sarebbe arrivato una manciata di anni dopo.

Nel 2014 arriva «Costellazioni», Brondi lo produce insieme a Federico Dragogna de I Ministri (che da qui in poi lo accompagnerà sempre), i collaboratori sono quasi gli stessi del precedente (fuori Pilia, dentro il percussionista classico Sebastiano De Gennaro) e qualcosa si muove: Le luci della centrale elettrica prendono più confidenza con la scrittura musicale, le parole a tratti si fanno più riflessive, emerge una sorta di umanesimo sui generis che gorgogliava già sotto i primi due dischi e che qui inizia a venire fuori, accostandosi ad un afflato politico da sempre presente. «Luminosa natura morta con ragazza al computer / Poverissima patria, arriva, arriva alla deriva economica», «L’amore si muove / Secondo un meccanismo simile a quello del mare / Strana questa cosa / Che respiriamo e poi smettiamo di respirare // Fanno la danza degli acquazzoni / Attorno al dito medio della borsa di Milano / Hanno sogni lunghissimi e a colori / Cantano l’inno e jingle pubblicitari / Toccandosi il posto convenzionale dei cuori» canta Vasco ne «I destini generali» e in «Punk sentimentale».

Sono segni di un’evoluzione che sa di maturazione. La maturazione di Brondi come uomo, che cresce d’età quanto crescono le persone che lo ascoltano: «Terra» (2017) è un disco del tutto riuscito, dal suono metropolitano e multietnico, con canzoni dal respiro ampio, che in certi momenti sembrano abbracciare l’umanità come specie. Le chitarre e l’elettronica vengono affiancate da tabla e altre percussioni world, ma ci sono anche violoncelli, contrabbassi e diversi cori. La riflessione si accompagna ad un afflato spirituale e cosmico, sono canzoni “adulte”, appaiono lo yoga, il buddismo e una verticalità sincretica, che alimentano in modo nuovo la scrittura immaginifica di Brondi. Come già in certi episodi dei dischi precedenti il «noi» diventa «tu», non mancano le canzoni d’amore e brani che mirano all’interiorità dell’Altro. «Qualcuno mi ha detto che gli hai detto / Che in qualche modo hai aperto il chakra del tuo cuore / Qualcuno mi ha detto che gli hai detto / Che senza di me davvero non puoi stare»Chakra»); «Io sono nei detriti spaziali / Nelle notizie da casa dai fronti siriani / Sono negli alberi monumentali / In quelli abbattuti, nei piani astrali / Sono tra i cercatori d’oro / Tra i fiori che crescono su ogni abbandono»Qui»).

Per certi versi simile a «L’Albero» di Jovanotti – ma decisamente meno didascalico – «Terra» è un disco molto denso di rimandi, di suoni, di peregrinazioni esistenziali nate da una profonda consapevolezza di essere nel mondo; ma è anche un disco con dei versi da tenersi in tasca, come una sorta di laico rosario di parole da strofinare in certi momenti («Cantami o diva l’ira della rete / Imprevedibile come le onde / Cantami della fame di attenzione delle sete di ogni idea che si diffonde / Cantami o diva dello sciame digitale / L’ironia sta diventando una piaga sociale / Cantami dell’immagine ideale / Da qualche parte c’è ancora sporchissimo il reale»). Dopo questo lavoro, Brondi decide di abbandonare il nome Le luci della centrale elettrica, si prende una pausa, va alle Canarie a insegnare yoga.

«Amate e fate quello che volete», è una citazione da Sant’Agostino contenuta in «Ci abbracciamo», una delle canzoni cardine di «Paesaggio dopo la battaglia», 2021. Altro disco molto bello per la prima volta a nome Vasco Brondi, che arriva dopo i mesi più duri della pandemia. La battaglia però non è solo collettiva ma anche personale, dell’autore e di chi è in ricerca. Scrive Brondi nell’edizione cd+libro: «in ogni canzone c’è qualcuno che ricerca fiduciosamente anche in tempi difficili, tra le leggi della città e quelle dell’universo. Dopo la battaglia c’è una pace incerta, piena di ferite o piena di sollievo. C’è qualcuno che chiama un nome tra le macerie, qualcuno che risponde». Lavoro in certi momenti più festoso dei precedenti (in «Adriatico» ci sono gli Extraliscio e una banda vera e propria), «Paesaggio dopo la battaglia» è l’ultimo disco di inediti di Brondi. Da questi brani, da qualche lettura e cover (come nel live pubblicato solo in rete «Talismani per tempi incerti», 2020) e da qualche ripescaggio dal passato, nascerà il live di sabato 17 settembre a «Bergamo NXT Station» (biglietti qui). Titolo «Va’ dove ti esplode il cuore»: l’ultimo brano inedito, pubblicato qualche mese fa, di un artista che scandaglia sé stesso e il mondo verso quella saggezza inevitabilmente incompiuta di chi sta cercando un senso: «In questa provincia sporca, santa, e sonica / I nostri sogni come per una reazione chimica / Entrando in contatto con l’aria ci bruciavano / E illuminavano, illuminavano, illuminavano / Illuminavano, illuminavano, e tutti gridavano // Va’ dove ti esplode il cuore, va’ dove il esplode il cuore / Un giorno ci toccherà morire ma tutti gli altri giorni no / Ma tutti gli altri giorni no».

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