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Etica Tecnica Pathos: come la pensa BergamoScienza

Intervista. Domani inizia l’edizione 2019. Ci siamo fatti raccontare dalla presidente Raffaella Ravasio e da Matteo Salvi il loro punto di vista su alcune questioni fondamentali del contemporaneo

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L’accelerazione tecnologica, la questione ambientale, la formazione fin dalle scuole e la divulgazione scientifica. Parlare di BergamoScienza (dal 5 al 20 ottobre a Bergamo, quiun riassunto del vasto programma ricco di conferenze e nomi interessanti) significa toccare una miriade di temi e selezionarne per forza alcuni particolarmente rimarchevoli.

La presidente dell’Associazione BergamoScienza Raffaella Ravasio e il Responsabile della segreteria organizzativa Matteo Salvi sono venuti a trovarci in redazione. Abbiamo colto l’occasione per capire come la pensa il festival bergamasco – quinto al mondo per partecipanti – sulle molteplici e controverse questioni tecnico-scientifiche del nostro tempo. E alla fine non potevamo evitare di sintetizzare il tutto parafrasando un celebre disco dei CCCP. Perché scienza vuol dire (oggi come non mai) etica, tecnica e pathos, cioè passione. Tanta passione.

L.B. - Come si organizza un festival come BergamoScienza?

R.R. - Partiamo un anno prima, quindi noi ora stiamo già pensando al 2020. Abbiamo al nostro interno delle commissioni, ognuna delle quali svolge un ruolo che poi riferisce al consiglio, alla presidenza, alla segreteria. È una macchina complessa e per fortuna abbiamo Matteo Salvi che ci supporta da quando siamo nati, quindi fin da Sinapsi, perché noi siamo nati come Sinapsi e poi abbiamo fatto il passaggio al Festival (a questo link l’organigramma dell’Associazione BergamoScienza, ndr).

L.B. - Di cosa si occupano le commissioni?

R.R. - Le commissioni riguardano la scuola, gli spettacoli, i temi: c’è un comitato scientifico di altissimo livello con più di venti persone che da tutto il mondo mandano idee e messaggi. Magari perché negli anni alcuni di quelli che sono stati relatori a BergamoScienza sono entrati a far parte del nostro comitato scientifico, sia italiani che stranieri. Queste persone propongono ogni anno un tema riferito alla loro materia di competenza e si preoccupano anche di invitare esperti che conoscono. Il tutto diventa abbastanza “facile” perché dopo diciassette anni si è creata una rete di comunicazione internazionale, quasi tutti gli scienziati ci conoscono e quindi vengono volentieri. BergamoScienza è il quinto festival al mondo per numero di partecipanti, siamo più grandi addirittura del Festival di New York. In più la città è sicuramente attrattiva, soprattutto per gli americani.

L.B. - Come scegliete il taglio con cui affrontare i temi di ogni edizione?

R.R. - Il punto di vista da cui trattare un tema lo lasciamo definire al relatore, perché ci siamo resi conto che chi si occupa di scienza tutti i giorni è la sola persona veramente in grado di spiegarla in maniera chiara, precisa e comprensibile, anche a chi della scienza è profano.

L.B. - Lei è il presidente dell’Associazione BergamoScienza, ma non è una scienziata.

R.R. - Faccio tutt’altro, lavoro in ambito immobiliare, non in ambito scientifico, ma mi sono appassionata. Già lo ero un po’ prima, ma da Sinapsi in poi sempre di più: ho letto, studiato e BergamoScienza è stato un grosso stimolo perché il relatore che tu hai davanti è di solito estremamente chiaro, apre delle prospettive e suggerisce dei percorsi. È una cosa fondamentale, perché il nostro principio è proprio quello di portare la scienza a tutti, non a chi già la fa o a chi già la studia, ma proprio a tutti i cittadini. Secondo noi più un cittadino è consapevole, più sa scegliere. Ed è fondamentale oggi, perché abbiamo visto negli ultimi vent’anni che cosa significa l’accelerazione scientifica e tecnologica in atto.

L.B. - A tal proposito, voi partite dalla scuola.

R.R. - Sì, anche se il lavoro con le scuole non c’è fin dalla prima edizione del festival. Noi siamo partiti con l’idea di parlare a tutti, poi ci siamo resi conto che alle conferenze venivano molti giovani già dal primo anno, quando venne da noi Rita Levi Montalcini. Allora ci siamo detti: dobbiamo andare nelle scuole e vedere se c’è qualcuno interessato non solo a venire alle conferenze, ma anche a fare con i propri allievi un percorso che ha un metodo ben preciso.

L.B. - Oggi collaborate con sessantacinque istituti.

R.R. - Partendo da un numero ridotto di scuole siamo arrivati oggi appunto a sessantacinque istituti i cui studenti frequentano i laboratori, fanno da guida e sono i protagonisti de “La scuola in piazza”. Mi piace citare quello che ha scritto uno studente di un Itis sulla propria tesina, cioè che BergamoScienza ha cambiato il suo modo di vedere le cose.

M.S. - Questa delle guide è una peculiarità di BergamoScienza. Le altre realtà a livello nazionale hanno guide che sono universitari specializzandi e quindi hanno un percorso di formazione molto più ampio rispetto ai ragazzi delle scuole che fanno da guida all’interno di BergamoScienza e vivono questa esperienza come un’opportunità di formazione. Siamo partiti con le scuole superiori, dai licei agli istituti professionali, e su spinta di Raffaella siamo anche usciti dal comune di Bergamo. I laboratori per le scuole elementari e materne sono stati il punto d’arrivo. Lo spirito è quello del peer-to-peer, dove i ragazzi sono guide e propongono esperimenti laboratoriali ai loro coetanei.

L.B. - L’effetto di questo approccio è “se lui, che è uno studente come me, queste cose le ha capite e le spiega a noi, allora posso capirle anche io”. Insomma la scienza non è più una cosa insormontabile.

R.R. - Sì, perché credo che la scienza, spiegata da chi la fa tutti i giorni materialmente, diventi di una comprensione veramente semplice. In Italia vent’anni fa la scienza era vista come una cosa distante, inavvicinabile dalla popolazione comune. In passato come Paese abbiamo anche fatto scelte senza neppure sapere di cosa si stesse parlando davvero.

L.B. - In questa edizione il tema principale è la sostenibilità ambientale. Cosa ne pensate del movimento Fridays for Future?

R.R. - Ho la sensazione, del tutto personale, che si stia tornando un po’ al Sessantotto, quando dai giovani è partita l’idea di poter cambiare qualcosa. Questa, al di là della simpatia o meno che possa creare il movimento, è una forza dirompente: solo se sei giovane puoi veramente arrivare a cambiare qualcosa. Primo perché hai la creatività, cosa che dopo i cinquanta comincia a calare. Secondo perché hai anche quella sorta di incoscienza mista a coraggio che ti permettono comunque di buttarti nel fare qualcosa.

L.B. - Ma lei non ha vent’anni e prova ancora a cambiare le cose…

R.R. - Probabilmente se avessi pensato a BergamoScienza adesso che ho sessantatré anni non so se l’avrei fatta. Ho iniziato a trentacinque anni perché credevo di dovere fare qualcosa di positivo per i miei figli, per la mia città e per il mondo che mi circondava. Lo stesso pensiero lo aveva un gruppo di amici, abbiamo iniziato così. Ci siamo detti: dobbiamo fare qualcosa in modo che le cose cambino. Certo, tornando ai Fridays for Future il rischio è che vengano strumentalizzati. Però se sono tanti, se è un fiume in piena, è più difficile strumentalizzare qualcuno.

L.B. - Il rischio c’è, tuttavia vedo un problema maggiore. Ovvero l’impreparazione di una classe dirigente che, tranne pochi casi, a volte pare proprio che non sappia di cosa parli. E così troppi media.

R.R. - Sicuramente manca oggi una formazione di tipo politico, umanistico e scientifico nella classe dirigente. Sono tutte cose che prima c’erano e che poi lentamente abbiamo perso. La nostra generazione non si è preoccupata di dare seguito ad una politica che fosse preparata e competente. I giovani che protestano ci mettono davanti anche a questa cosa.

M.S. - Come BergamoScienza il tema della sostenibilità lo trattiamo da anni, ben prima dell’esposizione nazional-popolare di questi giorni. Uno degli obiettivi del comitato scientifico è di essere sempre precursore nell’individuare quale potrà essere la criticità da qua a cinque anni. Questo, se da un lato è positivo, dall’altro ci porta a volte a non essere contestualizzati rispetto a determinate tematiche. Il cittadino comune, sensibilizzato dai media in modo distorsivo, si domanda perché il festival non affronti certi temi. Quindi quest’anno – Raffaella in primis – abbiamo voluto provare a mettere ordine rispetto alla cattiva informazione sul tema ambientale.

L.B. - Scorrendo il programma però mi sembra che sul tema ambiente ci sia anche una parte propositiva.

R.R. - La scienza, oltre che porsi il problema e darsi le risposte, in alcuni casi propone soluzioni. È indubbio che noi oggi viviamo meglio rispetto vent’anni fa grazie anche alla scienza e alla tecnologia. Dunque urlare che il pianeta si sta disfacendo è giusto, ma è altrettanto giusto dire: il problema potrebbe essere risolto così.

L.B. - L’altro tema importante è l’intelligenza artificiale, l’automazione e la dimensione digitale. Com’è la situazione della ricerca italiana a riguardo?

R.R. - Non siamo gli ultimi, però non abbiamo di certo tutta quella capacità economica che ci permetterebbe di essere molto più avanti e più grandi. Purtroppo la ricerca costa e l’Italia è una delle nazioni che investe poco in ricerca, in tutti i tipi di ricerca. Un altro degli scopi di BergamoScienza è fare capire che forse è necessario davvero spendere di più per la scuola e per la ricerca. Senza queste due cose il Paese non progredisce, rimane fermo, ed è quello che sta succedendo da ormai troppi anni.

L.B. - Lo sappiamo: la situazione europea è differente.

R.R. - Perché la Germania, nonostante la crisi, riesce ad andare all’ONU e a mettere sul piatto certe cifre importanti per l’ambiente (100 miliardi per il clima, ndr)? Perché negli anni l’industria tedesca ha aiutato la scuola a crescere. E questo non solo in Germania, ma in tanti paesi d’Europa. Inoltre è importante che i media parlino anche di cose positive, altrimenti come fanno i ragazzi a rimanere e investire, lavorare, produrre, ricercare?

L.B. - Il problema però non è industriale, è politico.

R.R. - L’industria sino ad oggi ha fatto quello che poteva fare, è la politica che non fa. La crisi non ha aiutato, la frammentazione politica e la brevità dei governi neanche. Nonostante questo l’’Italia è ancora un Paese altamente manifatturiero e se è riuscita, nonostante tutti gli ostacoli di questi anni, a rimanere altamente manifatturiera è perché comunque l’industria ha capito che doveva andare avanti, innovare e sostenere per quanto possibile la ricerca.

L.B. - La formazione sui temi tecnologici a scuole come va?

M.S. - C’è una mancanza di formazione rispetto ai linguaggi tecnologici e a tutto quello che è legato all’Intelligenza Artificiale. L’anno scorso, per esempio, abbiamo ospitato Alfredo Canziani del NYU Courant Institute of Mathematical Sciences, un ragazzo di ventotto anni dagli Stati Uniti esperto di queste materie. Grazie a un’opportunità creata con l’ufficio scolastico territoriale ha tenuto un seminario a trenta studenti selezionati tra coloro che partecipavano alla Summer School di matematica, persone che teoricamente avrebbero dovuto possedere una formazione particolare.

L.B. - E invece?

M.S. - Questo ragazzo ha chiesto loro di programmare due cose e si è reso conto che nessuno era in grado di farlo. Li ha quindi indirizzati verso questo tipo di linguaggio e in mezz’ora loro hanno acquisito le nozioni fondamentali e da lì sono diventati autonomi. Insomma il coding, che dovrà per forza di cose diventare una lingua fondamentale tanto quanto l’inglese, non è ancora percepito come formazione scolastica fondamentale.

L.B. - Parliamo invece della conferenza sulla “Terza cultura”, ovvero il punto di convergenza fra umanesimo e scienza. Una questione irrinunciabile oggi, perché l’accelerazione tecnologica ci pone di fronte a questioni di etica enormi.

R.R. - La questione etica ha sempre contato tanto e oggi conta ancora di più. Umanesimo e scienza devono dialogare proprio per questo motivo e il referente di questo dialogo deve essere il cittadino. Un cittadino informato fin da giovane è una persona che ha gli strumenti per costruirsi un’idea su questi temi importanti del nostro tempo, a partire dai grandi cambiamenti tecnologici in corso. Di Intelligenza Artificiale puoi parlare anche al bar se sai veramente cosa dici. La scienza corre e l’etica deve stare al passo. In questo senso l’umanesimo ha un compito importantissimo: non deve mettere paletti e limitazioni alla scienza, ma indirizzarla.

L.B. - Ma nel contemporaneo etica e scienza non vanno di pari passo.

R.R. - A me pare che questa disparità sia soprattutto nei cittadini. L’etica è una cosa che riguarda davvero tutti, ed è questo che facciamo fatica a capire. Alla conferenza stampa di presentazione di BergamoScienza ho detto una cosa alla quale credo davvero tantissimo: dobbiamo capire che siamo un solo popolo, che per adesso vive su un solo pianeta e che dobbiamo per forza comprenderci tutti, su ogni argomento che ci riguarda. Perché se non arriviamo a questo ci sarà sempre qualcuno avantissimo e qualcuno molto indietro. Greta Thunberg che viaggia in nave per parlare di cambiamento climatico e i bambini in Africa che scavano per tirare fuori il silicio dalle miniere, come qualcuno ha scritto su Facebook.

L.B. - Insisto: l’accelerazione tecnologica è troppo veloce rispetto all’etica. Ci sono delle questioni su cui non abbiamo un’idea di etica.

R.R. - Le questioni dobbiamo affrontarle, non dobbiamo nasconderci. Parliamone nei bar, tra la gente, facciamo capire cosa è questa accelerazione tecnologica, ben oltre il racconto spesso semplificante dei media. L’etica e le discipline che la riguardano devono muoversi, perché la scienza e la tecnologia vanno. Insomma sono l’essere umano e l’umanesimo che devono darsi una mossa e riuscire a parlare alle persone comuni.

L.B. - La strada è anche una divulgazione scientifica pop ma autorevole tipo quella di Luca Perri?

M.S. - Oggi funziona molto la divulgazione scientifica fatta dagli scienziati. Persone che hanno avuto una formazione prettamente scientifica e che capiscono quanto sia necessario avere un linguaggio sempre più “basso”, nel senso nobile della parola, per arrivare alla gente. Non lo fanno per essere popolari, ma perché desiderano che la gente sappia difendersi da tutte le bufale e le fake news che si annidano anche nel mondo scientifico. La formula è cercare di essere simpatici risultando anche credibili ed “esatti” nel comunicare. C’è tutta una generazione di venticinque-trent’enni che dopo un percorso di master trovano la capacità di essere divulgatori autorevoli e “leggeri”.

L.B. - È una formula che funziona?

M.S. - A guardare i numeri direi di sì. Tuttavia è inevitabile che in realtà come la nostra, dove sono gli scienziati a parlare, nasca un dubbio tutt’altro che secondario: rimaniamo rigidi e “puri” o ci apriamo un po’ verso il popolare? Quest’anno sperimentiamo la seconda possibilità con le conferenze infrasettimanali. Vogliamo provare ad attirare un pubblico po’ diverso dal pubblico dei giovanissimi. Gli studenti vengono, fanno tutto il loro percorso, ma dai diciotto ai trentacinque anni li perdiamo, quello è il target che tutti vorrebbero colpire ma nessuno ci riesce. Ci piace comunque pensare che attraverso la collaborazione con le scuole li indirizziamo un po’, creando una certa sensibilità, e quindi poi torneranno.

L.B. - Ma secondo voi perché i giovani sono tendenzialmente distanti?

R.R. - Sono cambiati i tempi. Siamo tutti un po’ distratti dallo smartphone e dai tablet, che però possono anche essere fonti di un’informazione di qualità. Fino a qualche anno fa se volevi delle informazioni di un certo tipo dovevi andare ai festival, adesso persone della generazione di cui dicevamo prima possono saltare i festival. Oppure ci va solo chi è appassionato. La passione è importante e forse è ciò che un po’ manca a questa generazione. Greta ha certamente un aspetto positivo: sta riappassionando alle criticità del presente che coinvolgono direttamente la scienza. La passione e la curiosità sono ciò che fa muovere tutto.

L.B. - Tutto vero, conta anche la testimonianza però. Voi, qui davanti a me, siete dei testimoni. Tanta convinzione, tante ore dedicate a BergamoScienza e un aspetto determinante: il pathos, la passione.

R.R. - Io ho tolto tempo al mio lavoro, ma ne sono felice perché BergamoScienza è diventata una forza trainante. E in fondo chi me l’ha trasmessa questa forza? I ragazzi delle scuole. Loro, così entusiasti, ci hanno detto: andate avanti. È a quel punto che capisci come il tuo lavoro, quello del gruppo dell’organizzazione, dei comitati e dei tanti volontari è significativo. Perché diventa un contributo ad un futuro più consapevole.

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