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Stephen Hawking, “Interstellar” e buchi neri (che evaporano) alla Torre del Sole

Articolo. Vita, morte e paradossi di uno dei fenomeni più misteriosi dello spazio, spiegati da Gabriele Ghisellini, dirigente di ricerca all’INAF-Osservatorio astronomico di Brera-Merate. Al Parco Astronomico di Brembate Sopra il 17 febbraio

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(foto Vadim Sadovski)

La notizia più recente dal fronte spaziale è che un buco nero errante si aggira nella Via Lattea, a 5.000 anni luce da noi. È il primo buco nero solitario ad essere mai stato rilevato. Per capirci: la Via Lattea, alla cui periferia è ospitato il Sistema Solare, potrebbe arrivare, secondo le ultime stime, a ricoprire una distanza di 1,9 milioni di anni luce. In confronto, 5.000 anni luce sembrano una distanza piccolissima. Siamo così vicini, eppure allo stesso tempo così lontani, dall’afferrare la vera natura di un buco nero.

Un po’ di luce su quanto sappiamo dei buchi neri sarà fatta giovedì 17 febbraio alla Torre del Sole di Brembate Sopra, in un incontro dal titolo “I buchi neri evaporano. L’eredità di Stephen Hawking” , con relatore il dott. Gabriele Ghisellini. Ghisellini è dirigente di ricerca all’INAF-Osservatorio astronomico di Brera-Merate, docente di Astrofisica generale all’Università Bicocca di Milano e autore di oltre 400 pubblicazioni su riviste internazionali. Ascoltarlo parlare di buchi neri è un po’ come un viaggio nel tempo: il tempo reale passa, quello percepito si dilegua alla velocità della luce.

Nel corso della serata Ghisellini parlerà “della più grande scoperta di Stephen Hawking”: che i buchi neri evolvono e che, nel corso di miliardi di anni, “perdono la loro massa fino a scomparire del tutto”. In una parola, evaporano. Hawking è riuscito, per la prima volta nella storia, a “unire, seppur in maniera per ora molto incompleta e parziale, la teoria della relatività generale con l’altra grande teoria del secolo scorso, che è la meccanica quantistica”.

Secondo la meccanica quantistica, quello che noi comunemente percepiamo come spazio vuoto in realtà è popolato da coppie di particelle (una particella e un’antiparticella), che “nascono, vivono per un tempo brevissimo, si ricongiungono e muoiono”. I fisici le chiamano “fluttuazioni cosmiche del vuoto” e succedono dappertutto. Hawking ha ipotizzato che dovessero, di conseguenza, succedere anche vicino a un buco nero.

Ciò significa che esiste la possibilità, per quanto remota, che “una delle due particelle venga ingoiata nel buco nero, perché nata all’interno del raggio di non ritorno, mentre l’altra, che è vicina ma pur sempre distaccata, riesca a sfuggire alla tremenda gravità del buco nero”. Di conseguenza, una particella è “destinata a non scomparire”, perché ha perso la sua compagna, mentre l’altra “entra nel buco nero con una carica di energia negativa e fa sì che il buco nero perda una parte piccolissima della sua massa”.

Ha inizio così il lentissimo processo di “evaporazione”: “In un tempo nell’ordine di 10^67 anni, cioè 1 seguito da 67 zeri, ovvero miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di anni, il buco nero sparisce”. E questo spalanca le porte a una nuova teoria scientifica: “si unisce in questo modo un fenomeno legato alla meccanica quantistica (il fatto che il vuoto è pieno di fluttuazioni cosmiche) con la gravità dettata dalla relatività generale, due teorie che sembravano inconciliabili. È il Sacro Graal dei fisici: la gravità quantistica”.

Ma se questa è la morte di un buco nero, com’è invece che nasce? Prendiamo “una stella 40-50 volte più grande del Sole in termini di massa”, che produce una quantità enorme di energia attraverso la fusione nucleare: “dall’idrogeno fa l’elio, poi il carbonio, poi il neon, e così via fino al ferro”. In corrispondenza del ferro, la stella “sbatte contro un muro: il ferro non produce energia. Al contrario, per bruciare ha bisogno di energia”.

Un bel problema, perché la pressione determinata da quell’energia era l’unica forza in grado di contrastare la gravità, che preme sempre più verso il centro della stella e la comprime. Il suo destino è segnato: “quando questo enorme nucleo raggiunge i 30 km di raggio, succede una magia: neanche la luce può sfuggire. Ecco perché parliamo di buco nero. Tutto ciò che passa nei paraggi viene risucchiato dalla gravità colossale a cui questo corpo è sottoposto: lo chiamiamo buco nero proprio per questo, perché le cose ci cadono dentro”.

“Tutti gli elementi che la stella ha creato prima di trasformarsi in buco nero”, continua Ghisellini, “vengono compressi fino a concentrarsi in un solo punto, nel centro del buco nero. Lì la densità diventa infinita. E ai fisici gli infiniti non piacciono, perché sono il segnale che si è andati a sbattere contro i limiti della teoria. Quindi gli hanno dato un nome: singolarità. È un’alzata di mani, un modo per dire che non ne capiamo il funzionamento.

Altrettanto misteriosi e molto simili ai buchi neri sono i famosi “wormhole” che “Interstellar” ha reso noti a tutti. La differenza tra i due sta nel fatto che, se un oggetto che cade in un buco nero è intrappolato lì, qualcosa che cade in un wormhole potrebbe attraversarlo dall’altra parte.

Inizialmente noti come “ponti spazio-temporale di Einstein-Rosen”, questi cunicoli sono stati battezzati come wormhole da John Archibald Wheeler, guru della meccanica quantistica. “Il nome”, spiega Ghisellini, “deriva dal fatto che, se un verme è su una mela e vuole andare dall’altra parte, ha due vie: passarci attorno o scavare un tunnel. Questo è quello che succede allo spazio-tempo in un wormhole”.

Proprio un wormhole è alla base del costrutto narrativo di “Interstellar”, che “ha avuto come sceneggiatore e ideatore Kip Thorne, il guru vivente della relatività generale”: un film “strapieno di fisica e di cose assolutamente verosimili, delle quali nessuna, finora, è stata dimostrata sbagliata”.

Nel film Romilly (David Gyasi) spiega a Cooper (Matthew McConaughey) il funzionamento di un wormhole: “prende un pezzo di carta, lo piega e lo buca con una matita: apre in sostanza un passaggio dalla parte all’altra del foglio, con un tragitto molto breve. Il problema è che, per farlo, ha dovuto piegare il foglio. Se qualcuno potesse piegare lo spazio tempo in maniera così parossistica e avvicinare due punti che normalmente sono distanti miliardi di anni luce allora sì che potrebbe creare un cunicolo che funge da scorciatoia”.

È anche per questo motivo che “i fisici non credono che i wormhole possano esistere sul serio”. “Se esistessero”, ipotizza Ghisellini, “allora sarebbe relativamente facile usarli come macchine del tempo: se si mette un buco nero in una bocca del wormhole, lì il tempo passa molto più lentamente. Quando si entra nel cunicolo ci si trova in un tempo anteriore a quello in cui si è partiti, quindi si viaggia indietro nel tempo”.

Ma le complicazioni teoriche sono numerose: “la possibilità di viaggiare indietro nel tempo pone dei paradossi micidiali. Se vado indietro nel tempo e uccido mia mamma prima che mi generi io come faccio ad esistere e tornare indietro nel tempo per ucciderla?”.

I fisici, quindi, si trovano di fronte a un’apparente contraddizione: la teoria apre la possibilità di viaggi nel tempo, ma gli sviluppi ipotetici di quella stessa teoria sbattono contro paradossi che sembrerebbero provare il contrario. Com’è possibile? Ghisellini fa notare che “non tutte le soluzioni di un’equazione sono accettabili: per esempio, la radice di 4 è sia -2 che +2, ma se uno dice ‘Sono alto la radice quadrata di 4’, la soluzione è per forza di cose +2, non può essere -2. La realtà impone di scartare delle soluzioni. Quella del wormhole, che è una soluzione vera della relatività generale, potrebbe non essere realistica”.

Il che non rende sterile la speculazione, né ci obbliga a farci ingabbiare dagli apparenti limiti della teoria. “Io ritengo”, conclude Ghisellini, “che sia sempre meglio rimanere un po’ scettici. Lasciare uno spazio nella nostra mente, per quanto piccolo, per la sorpresa”.

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