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“Unorthodox”, c’è un ortodosso (da liberare) in ognuno di noi

Articolo. Cosa significa crescere in una comunità chassidica per una giovane donna del XXI secolo che rivendica il proprio bisogno di autodeterminazione? Alla domanda prova a rispondere la mini-serie di Netflix che mette in scena le contraddizioni dei “metodi ortodossi” e il coraggio di chi li sfida per trovare la sua normalità

Lettura 3 min.

La serie “Unorthodox” (ex ortodossa), liberamente ispirata all’autobiografia di Debora FieldmanUnorthodox: The Scandalous Rejection of My Hasidic Roots”, è destinata ad essere ricordata come una delle poche rappresentazioni televisive a offrire uno spaccato onesto della comunità ebrea chassidica insediata in America.

La protagonista è Ester (Shira Haas) detta Esty che scappa dalla comunità ebrea di Williamsburg e da un matrimonio combinato nel quale si sente in trappola per rifugiarsi in Germania, a Berlino, città nella quale anche la madre si era trasferita pochi anni dopo la sua nascita.
A opprimere Esty sono le tradizioni di una religione che dall’esterno appare anacronistica e maschilista. Unite alla disillusione rispetto ad una vita coniugale nella quale l’unico compito sarebbe stato quello di generare dei figli, sintesi rappresentativa di quello che avrebbe dovuto essere il suo ruolo.

Mi sposerò e non avrò mai bisogno di altro” dice a sua madre con gli occhi colmi di rancore, ma ben presto si rende conto che in quella realtà fatta di regole ferree e privazioni (dai capelli che le vengono rasati a zero, alle invasioni di campo sulla sua vita sessuale) non riesce ad appartenere neanche a se stessa.

L’aspetto peculiare della serie ideata da Anna Winger e Alexa Karolinski è l’adozione di un approccio quasi etnografico che si rivela nella scelta di utilizzare dialoghi in lingua yiddish, ad enfatizzare la differenza tra la comunità e ciò che sta al di fuori. Così come la fedele e minuziosa attenzione per la riproduzione di costumi e dettagli quali gli shtreimel (i cappelli indossati dai capofamiglia) o i tipici payot (le basette arricciate) permette allo spettatore di calarsi in un contesto distante solo in apparenza, con uno guardo scevro da giudizi di valore e senza suscitare un effetto caricaturale.

È proprio grazie a queste premesse che riusciamo a comprendere e quasi a perdonare l’inesperienza e la goffaggine di Yanki (Amit Rahav), suo marito, che nel seguire pedissequamente i rigidi rituali non riesce a carpire le richieste d’aiuto di una ragazza per la quale, dopo quasi un anno di convivenza, resta ancora a tutti gli effetti un estraneo.

Esty però ha un segreto, una passione nascosta che condivide solo con la nonna. La musica. Alle donne della comunità chassidica non è permesso ricevere un’istruzione adeguata, imparare a suonare o a cantare in pubblico. È considerato volgare e inappropriato. Il loro unico compito è procreare “per ridare la vita a sei milioni di vittime”. Ecco perché Esty che dopo molti mesi dal matrimonio non riesce ad averne uno, viene additata come difettosa.

La scoperta della tanto agognata gravidanza rappresenta per la giovane donna la molla che le permette di concretizzare un’evasione. È la presa di coscienza che non è lei ad essere sbagliata a darle la forza per lasciarsi tutto alle spalle e poter ricominciare.
Dio si aspettava troppo da me”, dirà a quelli che le chiederanno il motivo della sua fuga. Ma ciò che pretendeva lei da sé stessa era di vivere una vita normale: poter uscire con gli amici, indossare un paio di Jeans, poter mostrare i suoi capelli corti “perché qui va di moda così”.

La vera potenza di questo viaggio di quattro puntate è quella di annullare la distanza tra una cultura che pretende di rimpiazzare le vittime dell’Olocausto e le preoccupazioni e i tabù che animano ancora il nostro presente.

Yanki non è solo il promesso sposo di una famiglia ebrea benestante ma è anche un ragazzo inesperto e timido che non si è mai relazionato con altre donne. Esty è una ragazza che trova nella musica lo strumento per esprimere la propria identità e con essa la chiave per aprire le porte di una vita nuova. Ma soprattutto è l’incarnazione perfetta della resilienza e della capacità di reiventarsi.

Sarebbe infatti riduttivo ascrivere la serie unicamente al tema dell’affermazione di genere. Calandoci in questo mondo che ci appare così arcaico non possiamo che restare affascinati e riconoscerci nel coraggio di una donna che parte per una città che non le promette nulla e che anzi rende ancora più palesi i limiti della sua formazione lacunosa e discontinua. “Non hai abbastanza tecnica per passare le selezioni del conservatorio”, le dicono senza mezzi termini i suoi nuovi amici tedeschi. Lei però non si arrende, non si dà per vinta, non accampa scuse e consegna le sue speranze alla delicatezza della sua voce.

“Unorthodox” non vuole essere una cinepresa severamente puntata sulle restrizioni dell’ebraismo più radicale, ma una storia di innocenza e ostinazione che gioca su poli culturali agli antipodi (la comunità di Williamsburg da una parte, la libertina Berlino dall’altra). Così nel mostrare l’infondatezza di alcuni precetti di una realtà letteralmente fuori dal mondo (Yanki è sconcertato dall’utilizzo dello smartphone da parte del cugino Moishe), ci ricorda che il potere di salvarci, di rialzarci, di ricominciare da zero, dipende tutto da noi e dalla capacità di riconoscere che è la forza interiore il bene più prezioso da cui ripartire e su cui investire.

Quel lago nel quale Esty si priva finalmente dei vestiti troppo stretti e della parrucca per fare spoglie di quel passato che è ancora vivo nei suoi ricordi, è lo stesso che ha fatto da teatro alle barbare uccisioni dei suoi antenati. Fatte le debite proporzioni, c’è una congiuntura di significati che riguarda la libertà e l’umanità in questi due eventi appartenenti alla Storia collettiva e a quella personale di una ragazza giovane: non c’è ragione che giustifichi lo sterminio di milioni di persone, ma non c’è neppure un motivo per imbrigliare la dignità di donne e uomini che cercano il loro posto nel mondo.

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