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“Cantata profana”: una preghiera della contemporaneità, che svela ferite e conflitti

Articolo. Tre storie semplici ma emblematiche che portano alla luce le ferite e raccontano i nostri interrogativi esistenziali, mettendo in scena un paradigmatico scontro generazionale. Per deSidera, il 28 agosto al Castello Visconti di Brignano Gera d’Adda

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È un affresco intricato e complesso, quello della messa in scena di “Cantata profana”. Come si addice a un’opera che solleva questioni di ampia portata, infatti, coinvolge molte voci e punti di vista, si avvale di simboli e archetipi, calandoli nella realtà, e prende spunto da generi e forme per poi scavalcarli.

In programma sabato 28 agosto alle 21:15 a Palazzo Visconti di Brignano Gera d’Adda, lo spettacolo è a ingresso gratuito (qui il link per prenotare). Porta in scena tre storie, molto diverse tra loro ma accomunate da una domanda che scorre come un fil rouge tra le esperienze dei protagonisti, e non una domanda qualsiasi: “Come si fa a vivere?”. Gianmarco Bizzarri, drammaturgo e regista del lavoro, ci racconta la genesi di uno spettacolo estremamente denso, che si muove tra le frontiere di una preghiera e della sua trasposizione nelle vite di uomini e donne, nelle forme dirette e schiette dell’oggi.

LD: Da dove nasce l’idea di “Cantata profana”?

GB: Gli ideatori sono stati i direttori di deSidera, Gabriele Allevi e Luca Doninelli. Da diversi anni portano avanti una riflessione su un format teatrale che unisca attori e spettatori in una sorta di preghiera teatrale: uno spettacolo che sappia dare voce alla comunità, mescolando sacro e profano. Le “Rogazioni per il tempo presente”, nel 2010, nascevano proprio da questa idea. Anche quest’anno l’intenzione originale era quella di riproporre il format delle “Rogazioni”, ma per ovvi motivi la dimensione del percorso itinerante collettivo è stata resa impossibile dalla pandemia. Gabriele e Luca, però, non hanno voluto rinunciare all’idea di dar voce ai desideri e alle ferite delle persone: per questo, io e due colleghi – Matteo Bonfiglioli e Bianca Montanaro – siamo stati coinvolti per la stesura di una nuova drammaturgia. Ciascuno di noi ha provato a scrivere una storia, che – come le “Rogazioni” – facesse risuonare alcuni di quei desideri e di quelle ferite.

LD: Ma cos’è esattamente una rogazione?

GB: Si tratta sostanzialmente di una forma di preghiera. Storicamente, è nata da una mescolanza di riti pre-cattolici e di tradizione liturgica ed è una sorta di processione con canti e litanie volta a presentare delle richieste. Se anticamente l’oggetto della preghiera era la speranza di raccolti abbondanti e prosperità, le “Rogazioni per il tempo presente” sono state pensate per affrontare le difficoltà di oggi, interrogandosi sul senso del ritrovarsi collettivo. Per la “Cantata profana”, però, come drammaturghi abbiamo avuto completa libertà formale e contenutistica: ne sono risultati tre monologhi che, più che ricalcare mimeticamente la preghiera, ne riecheggiano l’intenzione.

LD: Sono storie ordinarie. È come dire che ciascuno di noi, in qualche modo, porta avanti una forma di preghiera.

GB: Sono storie che abbiamo scritto osservando e ascoltando ciò che ci circondava – compresa, ma non solo, la situazione sociale e umana che ha delineato il Covid. Il primo monologo, quello di Matteo, porta alla luce il tema degli hikikomori, ragazzi che si rinchiudono in casa, rinunciando ad attività, quotidianità, al sostegno di famiglia e amici. Bianca ha evocato una ragazza incinta, in un dialogo immaginario con il figlio che, forse, darà alla luce; e io ho immaginato un giovane professore che si interroga sul suo ruolo di educatore e deve fare i conti con la morte della madre. Dalle loro voci emergono chiaramente delle domande incalzanti, come un assillo tormentato; questioni che accomunano tutti gli esseri umani, in quanto uomini e donne che vengono buttati in mezzo alla vita apparentemente senza una bussola. E a fare da contraltare a questi interrogativi, appare nella narrazione la voce del Padre: è stato Luca Doninelli a scrivere questa parte che fa da “controcanto” alle storie dei tre personaggi.

LD: Significa che a queste domande angustianti viene data una risposta?

GB: Più che una risposta è un botta e risposta. La voce del padre fa da vera e propria cornice alla narrazione; è un continuo incalzarsi in un confronto quasi conflittuale, come lo è qualsiasi forma di incontro/scontro, compreso quello generazionale. D’altronde, un punto di riferimento importante per la costruzione dello spettacolo è stata la “Cantata profana” di Béla Bartók (che, non a caso, ci ha fornito anche l’ispirazione per il titolo): si tratta di un’opera complessa, composta nel 1930, per baritono, tenore, coro e orchestra. Per comporla, a sua volta Bartók prese ispirazione da una ballata popolare della tradizione rumena, la fiaba dei “Nove cervi incantati”. In breve, la storia era questa: c’era un padre che aveva nove figli, che amava e proteggeva più di ogni altra cosa al mondo; un giorno i nove giovani si avventurarono nel cuore del bosco, e lì vennero tramutati in cervi. Nonostante le suppliche del padre, i figli – prigionieri della nuova forma – non poterono più fare ritorno a casa e furono costretti a imparare una nuova vita tra gli alberi del bosco.

LD: È una simbologia che si può leggere su svariati livelli.

GB: C’è la difficoltà di crescere, la paura di scoprirsi impreparati alla vita; lo spaesamento di fronte a una realtà che ci appare sempre più estranea – una “allarmata radura”, direbbe Giorgio Caproni. E poi sicuramente centrale è il rapporto con la figura del Padre, sospeso tra conflitto e nostalgia: sotto questo aspetto, la nostra “Cantata profana” riprende anche una linea strutturale del modello di Bartók, dove le voci del padre e dei figli si inseguono e si intersecano. Questo ci interessava molto: volevamo proprio rendere il senso del fronteggiarsi e dell’incalzarsi a vicenda che è insito in uno scontro originario e vitale come questo.

LD: Ideatori, drammaturghi, attori: “Cantata profana” è un lavoro decisamente collettivo, oltre che complesso. Com’è stato curarne la regia?

GB: Sulla carta, mi sembrava un puzzle insolubile. Quello che ci ha salvato dalla sterilità dello sforzo di far combaciare i pezzi, è stato il fattore umano: quando ho cominciato a confrontarmi con Gabriele, con Luca, gli attori e gli altri drammaturghi, e poi lo scenografo, improvvisamente ho cominciato a percepire che c’era un filo che teneva assieme tutto il nostro lavoro. Se un lavoro resta prigioniero di una singola mente può trasformarsi facilmente in un rovello intellettuale: è quando inizia il dialogo, il confronto – quando si mettono le mani in pasta – che i pezzi trovano finalmente il loro posto. Tra l’altro, è il mio esordio ufficiale alla regia e come prima esperienza ho riscontrato una grandissima disponibilità da parte della compagnia. C’entra quello di cui parla “Cantata profana”: tra i tanti professionisti con cui ho collaborato per questo spettacolo, posso dire di aver trovato alcuni ‘padri’ e tanti ‘fratelli’.

LD: La messa in scena è stata a sua volta un incontro generazionale?

GB: Gli attori sono molto diversi tra loro, a livello di esperienza professionale: la voce del Padre sarà di Andrea Soffiantini – l’attore per cui Testori aveva scritto il “Factum est”; accanto a lui, saranno in scena Matteo Bonanni, Lorenzo Casati e Maria Laura Palmeri: tre attori eccezionali, ma con esperienza minore. Penso che mettere in comune i percorsi sia una bellissima occasione. In generale, ho l’impressione che il panorama teatrale italiano soffra ancora di una spaccatura insana: da una parte c’è la grande tradizione, sempre più al tramonto; dall’altra, giovani con enorme entusiasmo, ma che – volenti o nolenti – si accontentano di creare una scena alternativa troppo spesso fine a sé stessa. Io, invece, credo nella messa in discussione reciproca.

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