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«Le regole del gioco»: un manuale per l’uso del tardo capitalismo. In formato teatrale

Intervista. La firma è di due membri della band Lo Stato Sociale, insieme a Johnny Shock, e ha l’ambizione di darci delle dritte per districarci nelle sabbie mobili del «capitalismo dentro di noi»: «Le regole del gioco» va in scena venerdì 15 aprile 2022 alle 21:30 al Maite, a Bergamo

Lettura 6 min.
Johnny Shock e Alberto Guidetti

«Quella in cui viviamo è una società in cui ciascuno è costretto ad avere un’immagine pubblica, inautentica, che è costretto a costruire e che potrebbe essere la sua salvezza o la sua rovina. Basta poco per distruggerti o darti il successo: è sufficiente una sola performance. La società della performance è una società che divora tutto, rende tutto commercializzabile – cioè qualcosa attorno al quale è possibile creare un mercato, fare marketing, hype». Così presentano l’idea di “società della performance” Maura Gancitano e Andrea Colamedici nell’omonimo saggio (Tlon, 2018), introducendola come una tappa ulteriore nella trasformazione della nostra società che ci ha visti diventare da individui a lavoratori, a consumatori, a spettatori (con l’idea di società dello spettacolo di Guy Debord) e infine a performer.

Che questo si definisca post-capitalismo, tardo capitalismo o svariate altre definizioni, quel che è certo è che è una deriva sempre più totalizzante e spaesante di un sistema che è parte di noi. Ed è proprio per tentare di indagare il «capitalismo dentro di noi», per come è oggi, che nasce «Le regole del gioco» (con il programmatico sottotitolo «Manuale di sopravvivenza al capitalismo», qui il link per partecipare), spettacolo ideato e portato in scena da Alberto Bebo Guidetti – una delle anime de Lo Stato Sociale – e dall’attore milanese Johnny Shock, con la regia di Lodo Guenzi, band mate di Guidetti.

È un vero e proprio manuale, quello che i due attori in scena provano a stilare, nel tentativo di districarsi tra «aspettative sociali, desiderio di successo, YouTuber depressi e hit radiofoniche», in un monologo-dialogo che sfocia nel coinvolgimento del pubblico. Ce lo racconta Guidetti.

LD: Le regole del gioco nasce da un terzetto abbastanza curioso: tu e Lodo Guenzi fate parte de Lo Stato Sociale, quindi è facile immaginarvi lavorare a un progetto simile insieme; come hai iniziato invece a collaborare con Johhny Shock, ingegnere, oltre che attore, classe 1997?

AG: In prima battuta Johnny è un fan de Lo Stato Sociale. Abbiamo iniziato a vederlo ai nostri concerti tanto tempo fa, quando lui era ancora un adolescente. Ci seguiva nei tour e dopo alcuni anni è facile stringere rapporti di quasi amicizia, con alcune persone: è bello rivedere le stesse facce. Poi ho cominciato a lavorare sul progetto di «Fantastico!» sotto forma di newsletter e Johnny mi ha proposto vari contenuti. Ci siamo trovati a collaborare fino a che non è arrivato a gestirlo lui in toto e la cosa è sfociata in questo cabaret strano che è «Fantastico! Live». Abbiamo avuto la possibilità di stringere ancora di più il rapporto umano, abbiamo iniziato a sentirci spesso e scambiarci idee. A fine estate 2021 ci siamo inviati alcuni materiali che si somigliavano e a quel punto gli ho detto: «Ma sai cosa dovremmo provare a tirar fuori qualcosa?». La mia idea era proprio lavorare con qualcuno con che ha un modo di vedere il mondo diametralmente opposto rispetto al mio e con Johnny gioca proprio questa differenza d’età, 12 anni. Per me è un percorso di crescita.

LD: Nello spettacolo ad un certo punto emergono alcuni personaggi, come Berlusconi o Margaret Thatcher. Sono riferimenti a un immaginario che avete in comune o su cui avete un’ottica diversa?

AG: Prendendo l’esempio di Berlusconi, penso che per Johnny sia abbastanza a portata di mano, proprio perché è uno dei nostri politici più longevi. Ma sicuramente io quando penso a Berlusconi immagino più la parabola anni ’90, a cavallo con gli anni 2000; per lui forse è già quello dei primi anni ‘10. Parliamo di una differenza di percezione della politica italiana di almeno un decennio. Questo porta con sé cose interessanti: la lettura di alcune cose, come può essere il movimento 5 Stelle, con dei mezzi per leggere l’ambiente politico diversi, vissuti diversi, stesso giudizio finale. In ogni caso, tante suggestioni in realtà arrivano da lui: c’è una parte del suo monologo che parla di YouTube che è sua e solo sua. Io mi sono fatto fare una lezione per capire precisamente cosa fanno gli youtuber… È un dato anche solo generazionale: io ovviamente non potrei mai fotografare certe situazioni del mondo dei ventenni.

LD: I due monologhi mostrano queste due visioni del mondo che sembrano non incontrarsi, e poi c’è un momento di sintesi o di incontro. A volte è molto frustrante porsi sempre le stesse domande e non trovare delle risposte, cercare una sorta di compromesso con noi stessi. In questo gioco teatrale invece cerchi un confronto, in primis col tuo compagno di palco e poi con il pubblico. È utile?

AG: In questo spettacolo mi prendo la libertà di andare all’estremo, quindi smettere di essere me stesso, cosa che con Lo Stato Sociale non posso fare: la musica è già il metodo con cui ci si mette il contatto col pubblico. Personalmente, porto in scena l’educazione molto libertina della mia generazione. Io vengo da un’estrazione di sinistra, nel periodo in cui non c’era l’incredibile tassonomia delle rivendicazioni. Eravamo alla ricerca di una libertà collettiva, dello stare bene insieme e provare a vedere a metà strada se ci si incontrava. Nella più disperata delle ipotesi, a metà strada: molto spesso era andare a casa degli altri e vedere come si sta nei panni degli altri.

LD: Insomma, ti metti ad osservare a distanza…

AG: È intrigante mettermi nella posizione di ascolto di chi vive profondamente questa tassonomia di rivendicazioni, che per me è una deriva imperialista e liberista del mondo. Normalmente trovo necessarie le rivendicazioni pubbliche che vengono fatte quando hanno una rilevanza sociale. Non trovo sensato dire io perché sono io; non funziona così la società, è un patto sociale. L’idea era quindi riuscire a spostare la mia visione del mondo in una direzione che io ovviamente non posso fare mia. Abbiamo trovato un escamotage col pubblico: nel momento in cui cominciamo a dialogare dobbiamo tirare in mezzo chi è lì, per forza di cose, per vedere cosa succede quando andiamo al di là del nostro piacere o del nostro desiderio. Ci siamo inventati una cosa che succede grazie al pubblico e che però non lo mette in difficoltà, perché il pubblico ha la possibilità di scelta: è proprio questo che lo può mettere in crisi. Abbiamo provato a ridurre alla maniera più semplice possibile quella che è una delle strutture del capitalismo.

LD: Una delle idee chiave de «Le regole del gioco» è il meccanismo dell’odio come “carburante del tardo capitalismo”. Siamo abituati oggi ad analizzare l’odio che vediamo, tra social o episodi di violenza che fanno parte della nostra attualità, interpretandolo come una specie di campanello d’allarme. Voi che punto di vista avete scelto?

AG: Nello spettacolo ad un certo punto proponiamo un “gioco” in cui coinvolgiamo il pubblico: si tratta di produrre dell’odio insieme, per vedere che non è poi così lontano come lo immaginiamo. Bisogna sempre stare attenti: ci crediamo, chi più chi meno, portatori della santa verità e dello standard umano di decenza, mentre non esistono solo gli estremi. La violenza in toto per me è da condannare costantemente, ma più ci avviciniamo al nostro limite di accettabilità, più scopriamo zone grigie di odio/violenza, o atteggiamenti troppo direttivi. Ci sono schiere di opinionisti digitali che non vedono l’ora di mettere alla gogna le persone. Non è così che è la teoria del conflitto di Marx, non è così che si utilizzano le zone grigie per far crescere un terreno in cui confrontarsi. Siamo convinti che sia una cosa da belve, in realtà lo siamo un po’ tutti. Alla fine è il patto dello stare in società richiede una costante misura e contro misura con quello che non si dovrebbe fare.

LD: L’altro concetto fondamentale è quello dell’alienazione. Al giorno d’oggi viviamo costantemente alienati, tutti i giorni, tutto il giorno. Nel “post capitalismo” più che consumare, usando le parole di Gancitano e Colamedici, viviamo in una performance senza fine.

AG: E poi siamo costantemente, chi più chi meno, soggetti a ranking, valutazioni sul piano lavorativo o da social network. Io non credo che la capillarità di questa società della performance sia un dato assoluto: non è sempre così, dipende dalla fascia generazionale e da quanto vogliamo starci dentro. Soprattutto, è importante movimentarsi in opposizione a questo sistema. Siamo schiavi della performance, quindi? Quello che succede fuori dai libri, ci interessa. Cercare in primis di capire quali sono i nostri limiti e non farci schiacciare dalla frenesia, dalla sensazione di fallire, non fare abbastanza.

LD: Il «capitalismo dentro di noi»: tu sei un musicista affermato, che fa quello che gli piace ma deve sottostare a degli schemi. Come trovi una libertà oggi, in questo?

AG: Io in questo momento, e credo di parlare a nome dei miei soci della band, mi sento più libero rispetto a diversi altri momenti della nostra carriera, anche del recente passato. In molti momenti tra il 2018 e il 2019 siamo stati sovraesposti e questo ci ha messo a dura prova. Ci siamo ritrovati a fare delle cose perché sentivamo di doverle fare. Uno dei motivi per cui ho scritto questo spettacolo con Johnny è la domanda che fece Lodo, eravamo in tour in quel periodo: «ragazzi, ma non è che siamo diventati felici per contratto?». È una domanda dura da ammettersi. In passato abbiamo dato via una fetta di noi stessi, sbagliando, anche. Ora ci siamo ripresi una serie di possibilità di scelta. Non abbiamo mai firmato contratti con le major e continueremo a non farlo. Abbiamo detto di no a un sacco di proposte. E questo è un modo di guardare in faccia la realtà e le persone. Sai cos’è Lo Stato Sociale? È l’insieme di queste cose, non sono solo tre minuti di una bella canzone. Abbiamo il desiderio di costruire un immaginario e per farlo devi imparare a dire di no, ma soprattutto devi rincorrere quello che pensavi di aver perso, tenerti strette e vicine le cose che senti più necessarie. In qualche maniera ci sentiamo più liberi da alcune logiche capitaliste della produzione musicale, adesso più che mai.

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