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Pandemonium Teatro, quanto sarà duro l’anno che verrà

Intervista. Per il settore teatrale, il 2021 inizia alla cieca. A quasi un anno dall’inizio dell’emergenza, i dubbi si moltiplicano pur tra tanto fermento e numerose proposte. Mario Ferrari, direttore di Pandemonium Teatro, ci racconta le sue.

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Immagine di scena di uno spettacolo di Pandemonium Teatro

Quando a febbraio scorso in Lombardia sono iniziati i primi annullamenti di spettacoli da parte di organizzatori in allarme, forse nessun operatore teatrale immaginava come sarebbero andate le cose in seguito. Non poteva immaginare di certo la paura, il lutto o il perenne stato di emergenza sanitaria; ma nemmeno lo sconforto, i tentativi di trovare alternative, i movimenti di protesta o l’arma a doppio taglio rappresentata dalle nuove opportunità digitali. A quasi un anno da quei momenti abbiamo intervistato Mario Ferrari di Pandemonium Teatro, per raccogliere le idee sullo stato delle cose teatrali, tirare - parzialmente - le fila e mettere sul piatto preoccupazioni e speranze per i prossimi mesi.

LD: Com’è la situazione, oggi, dopo quasi un anno? Ci sono stati passi avanti, intravvedete spiragli?

MF: Sembra incredibile sia passato un anno. Avremmo dovuto avere dei debutti importanti tra fine ottobre e fine novembre, e invece le cose sono andate così. È sicuramente spaesante, ma al tempo stesso in qualche modo anche confortante: finora abbiamo resistito! Volendo fare un bilancio, un dato ovvio è che da un punto di vista economico, per noi come per chiunque altro lavori nel teatro, c’è stato un crollo. Anche con uno sguardo sulla situazione a livello nazionale, numerose risorse economiche sono venute a mancare e c’è una fortissima instabilità. Fortunatamente alcuni supporti all’attività regolare sono rimasti assicurati, come i contributi ministeriali o alcuni bandi di fondazioni o istituzioni. Anche noi ci siamo approcciati, inizialmente storcendo il naso, allo strumento del web, con cui stiamo facendo alcune sperimentazioni. Sia chiaro, abbiamo battagliato e continuiamo a battagliare: lo spettacolo dal vivo è dal vivo, punto. Ma ci stiamo cautamente lanciando in alcune iniziative, ad esempio una versione di un nostro spettacolo in vista del Giorno della Memoria, per farlo seguire alle classi delle scuole da remoto. Il punto è che non è affatto facile riadattare la nostra attività a questi mezzi: ci servono strumentazione e competenze che non abbiamo già in casa, e dobbiamo andarle a cercare a pagamento.

LD: Vedi compromessi possibili con l’idea del “Netflix della cultura”?

MF: Tanto per cominciare il mondo della cultura è amplissimo e comprende vari campi e settori, alcuni dei quali possono inserirsi abbastanza agevolmente all’interno di questa modalità. Noi siamo un po’ perplessi: c’è un problema di fruizione di fondo. Il nostro lavoro si basa sull’artigianato, che per sua natura è difficilmente compatibile col carattere industriale di un contesto come quello di Netflix. Quindi come rendere un prodotto artigianale industrializzabile? Ci sono certamente realtà culturali che riescono a sfruttarne le potenzialità facendo ottimi lavori; penso, ad esempio, alla stagione operistica bergamasca. Ma il requisito di base è l’eccellente qualità degli strumenti e delle modalità, e un grandissimo lavoro di riadattamento: non puoi prendere una cosa e sbatterla sullo schermo!

LD: Difficile, quasi impossibile?

MF: Per farlo serve una grande disponibilità economica. Penso che per il nostro settore partecipare al Netflix culturale sarà appannaggio delle grandi istituzioni teatrali che, semplicemente, se lo possono permettere e che avranno una forte capacità di richiamo. Per le realtà più piccole, invece, penso continueranno le sperimentazioni che si sono viste in questi mesi, varie e fantasiose, ma a titolo, ahimè, quasi sempre gratuito, perché è difficile renderle a pagamento. Gli artisti stanno facendo delle selezioni, per capire cosa è sacrificabile sullo schermo.

LD: In questi mesi sono nate moltissime iniziative di protesta. C’è qualcosa di concreto che si sta muovendo?

MF: questo caos ha portato qualcosa di positivo: non si molla l’osso. Moltissimi di noi stanno attivamente sollecitando chi ci governa, sia a livello ministeriale, regionale o amministrativo, perché non siamo affatto soddisfatti di come stanno le cose. Non tanto in termini quantitativi, per quanto riguarda le risorse, che ci sono e in abbondanza. Al massimo, da questo punto di vista, si potrebbe dire che le azioni di sostegno sono piuttosto disordinate e anarchiche, e arrivano anche dove non è necessario: in qualche modo diventa uno spreco di risorse. La mia proposta è che venga proposto alle imprese di prendersi cura economicamente dei singoli, con una funzione di mediazione territoriale. Ma il vero tallone d’Achille istituzionale è la mancanza di progettualità. Non c’è un’idea, una traccia, una direzione. Lo “stop and go” è assolutamente ingestibile e sfiancante. Non pretendiamo un ritorno immediato alla normalità, ma almeno un’indicazione di massima, per poter avere una pianificazione del lavoro. Anche per questo ci sono state e ci sono tantissime iniziative, petizioni, azioni, sia da parte di enti ufficiali, come le associazioni di categoria, sia di movimenti informali, a carattere autorganizzato e spontaneo.

LD: Questo è fondamentale: nominare le cose, uscire dall’invisibilità, apparire pubblicamente.

MF: Nel momento in cui i movimenti si diffondono e appaiono sui mass media, le situazioni difficili o problematiche si svelano, si mostrano ed è così che si forma un’opinione pubblica. Forse attraverso questi movimenti di protesta nati dal basso stiamo finalmente iniziando a uscire dall’idea della cultura elitaria: la cultura e l’arte creano coesione e identità sociale. In qualche modo osserviamo un pezzo di comunità che si riunisce e tutti ci si possono rispecchiare. È un corpo vivo, unitario, con caratteristiche reali: dietro gli spettacoli ci sono i tecnici della protesta dei bauli, e dietro di loro ci sono delle famiglie. Questo ha aiutato anche a valutare in modo più chiaro e preciso il flusso economico che c’è dietro al nostro settore, considerato da sempre come poco impattante sul PIL.

LD: Quali sono le tue proposte per i prossimi mesi?

MF: Se si parla di riaprire i musei, significa che è ora di riaprire anche i teatri. Lo considero assolutamente fondamentale per una ripartenza, seppur con contingentamenti, sanificazioni frequenti e tutte le accortezze del caso. Al momento tutti i teatranti si sentono totalmente inutili. Il rischio serio e concreto, se la situazione continua così, è quello di un impoverimento totale, oltre che occupazionale, anche di energie: stiamo pian piano perdendo creatività, entusiasmo. E chi prende o prenderà in mano il tutto in questo contesto deve averne in quantità! La posta in gioco è alta. Non possiamo permetterci di perdere un intero settore, con enormi ricadute sociali. Se andiamo avanti così il danno sarà irrecuperabile, sia per i teatranti che per il pubblico. Se una cosa è apparsa netta da questo periodo cupo è il valore aggregativo e sociale dell’arte in una comunità: noi l’abbiamo visto nel nostro pubblico durante l’estate, che era affamato di incontri culturali. Io chiedo alle istituzioni: fateci lavorare, dateci almeno delle tempistiche! E agli spettatori di farsi sentire, esprimere ad alta voce le loro esigenze.