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#allamiaetà: Laurà e tegn a mà la foia – La storia di Caterina, bergamasca in Svizzera

Racconto. Quella dell’emigrazione italiana oltre le Alpi è anche una storia bergamasca. Qualcosa che ha riguardato molte donne che a partire dai primi anni del Dopoguerra si sono trasferite per cercare lavoro. Una di loro era Caterina

Lettura 7 min.
La madre e il padre di Caterina ritratti. Furono dipinti da un pittore amatoriale di Zogno come contropartita per del lavoro di Caterina.

Inizia oggi con la storia di Caterina #allamiaetà, una nuova rubrica di Eppen tutta basata sulle storie: a volte particolari e che meritano di essere raccontate, altre volte di persone che durante la loro vita sono riuscite con un’azione instancabile a caratterizzare il luogo dove vivevano. Storie vere, che hanno dato il loro piccolo grande contributo a formare questo territorio spesso sorprendente, molto orgoglioso, non privo di contraddizioni: Bergamo e la sua provincia. “Alla mia età…”: ogni buon bergamasco che si rispetti si è sentito dire una frase che cominciava con “Alla mia età…”, di solito pronunciata da un anziano, per portare oltre il proprio tempo un fatto importante, o magari perché il concetto che doveva passare è che allora era dura, oggi invece…. #allamiaetà, dicevamo, è una rubrica di storie e in fondo a cosa servono le storie, se non a portare oltre la propria età qualcosa d’importante che è accaduto? Buona lettura.

Mi chiamo Mazzoleni Caterina Carmela. Sono nata il 5 febbraio del 1935 a Zogno”.
Nell’angolo del soggiorno c’è un camino acceso, un lungo tavolo segue la parete fino alla portafinestra, il resto della stanza è riempito da altri tavoli, piccoli e grandi, sono carichi di vasi e fiori finti, statue e statuine, suppellettili e oggetti di ogni tipo. Le pareti sono completamente foderate di quadri e fotografie. Il museo domestico si lascia attraversare da un sentiero rapido, largo quanto basta per concedere il passaggio di una sola persona per volta. Finisce e ricomincia tracciando un perimetro di spazio attorno al tavolo a cui sediamo. Rina è preoccupata di non riuscire a ricordare.

“Sono nata sul monte di Zogno, eravamo tre fratelli e tre sorelle. Mio papà era un muratore, ma di lavoro ce n’era poco, faceva quello che poteva. E quasi tutti gli anni c’era un figlio. Mia mamma lavorava un po’ il giardino, un po’ di campagna, seminava l’insalata, fagioli, patate; aveva due galline, una mucca, vendeva il latte. Lei faceva le sue cose. Si è data tanto da fare mia mamma. Questa è mia mamma”.

Indica una giovane in una fotografia incorniciata che ha preparato sul tavolo. Ritrae alcune persone della contrada San Sebastiano, dove ha passato l’infanzia. C’è un solo uomo, vecchio e con gli occhi scavati dall’ombra, poi sono tutte donne e bambini che si sono raccolti lì proprio per l’arrivo del fotografo. “Ci si conosceva tutti. Una volta se avevamo mezzo panino se ne dava un pezzettino a ciascuno. Invece adesso se abbiamo il panino ce lo mangiamo noi”.

A sette anni Rina aveva già cominciato a lavorare, scendeva in paese “a far la serva”, non per soldi ma per un po’ di minestra, che comunque era sempre “rara”. Lo faceva notare alla signora, e quella allora ci aggiungeva l’acqua. “Dopo ce lo dicevo a mia mamma e lei mi diceva Pota cosa vuoi, mei de negot. Bisogna accontentarsi”.

In Svizzera ci va quando ha 16 anni. Parte con suo padre e i tre fratelli maschi, tutti muratori. “Qui non c’era lavoro, ne per uomini ne per donne”. A Zogno c’è la Manifattura, ma impiega già una componente della famiglia – la sorella – e non c’è posto per nessun altro dei loro. E allora partono, è il 1951. Sono gli anni dell’esodo di massa verso la Svizzera, che è già la meta principale dell’emigrazione italiana del Dopoguerra. Lo sarà almeno fino alla fine degli anni Cinquanta. 300mila persone a inizio decennio, saranno 1milione e 420mila alla fine. Il movente principale di contadini, manovali, operai, donne – tante donne – che partono, è il movente universale dei processi migratori: cercare lavoro, migliorare le proprie condizioni di vita. Tanti di quelli che si spostano in quegli anni condividono lo stesso obiettivo: lavorare il tempo necessario per comprarsi una casa nel paese di provenienza.

Sarà lo stesso per Rina, suo padre e i tre fratelli. Arrivano a Fleurier, Canton Neuchâtel, nella Svizzera Romanda. Lì suo padre, “ol me Tata” dice lei, aveva già lavorato come muratore per un impresario svizzero di nome Willy Stauffer, il cui fratello ha un’azienda agricola presso cui la giovane Caterina troverà ospitalità.

“Io non avevo l’età per andare in fabbrica. Mio papà conosceva quella famiglia di contadini, mi ha detto Guarda, vai là, c’è almeno da mangiare, ti daranno quello che ti danno, però è una famiglia sana. Almeno avrai da mangiare. Aiutavo in casa, io facevo come lei, seguivo Madame Stauffer, quello che faceva lei, io ci andavo dietro. E mi sono trovata bene, tanta dolcezza non l’ho mai ricevuta. Mi alzavo la mattina e Bonjour Rina, vous avez faim? Mi dava una tazzina – io ero abituata che metà tazzina bastava – e mi diceva Mangez, prenez encore... Mangez Rina, il y a encore! Pota io ho detto Madona che ghè ol paradìs. La gentilezza... perché noi i bergamaschi, la mia famiglia, siamo più burberi, non cattivi, ma burberi... È il carattere così. Invece lei era sempre gentile, la Madame Stauffer.

Gli Stauffer “io li ho sempre visti lavorare” dice. “Non li ho mai visti buttare via una goccia di latte, mettevano tutto da parte. Avevano tutto, ma i tenìa a mà la foia. Quando oggi vedo qualcuno che butta via qualcosa penso sempre Se ti vedesse madame Stauffer guai...”

Trascorre tre anni presso quella famiglia, fino a quando è in età per entrare in fabbrica. A quel punto trova un impiego prima in un’industria meccanica, poi in una fabbrica di orologi a Couvet, poco lontano da Fleurier. Le colleghe sono quasi tutte svizzere, lei è straniera, ed è la prima a riconoscersi tale. Si impone, per dignità e rispetto, di votarsi a una specie di condiscendenza verso quello stato di sudditanza, disuguaglianza, subalternità in cui si trovano i lavoratori immigrati, gli italiani in Svizzera.

“Io ero lì e lavoravo, era dura imparare ma ero attenta, perché se tu non lavori non prendi soldi. Ero a cottimo e sapevo che se c’era mancanza di lavoro mi mandavano via. Io, che sono straniera, devo mettercela tutta e stare lì al mio posto. Loro, le svizzere: la Catherine, elle travaille! Non va neanche alla toilette! dicevano, non va neanche à manger la cioccolata! Ho fatto fatica perché io volevo avere un buon rapporto con loro, e cercavo di spiegare che ero straniera, che dovevo obbedire. Ci ho detto Voi siete nel vostro paese, quello che fate, fate. A me da un giorno all’altro mi mandano via, perché sono straniera. Io sono qui per lavorare, e per obbedire. Dovevo mettercela tutta e star lì al mio posto, non mi sono mai lamentata, perché io ero straniera. Volevo essere educata, volevo essere trattata bene”.

I ricordi e le riflessioni di Rina parlano indirettamente di tempi in cui quasi non esiste spazio per qualcosa che non sia la strenua volontà di trovare la serenità economica, di costruire il futuro a costo di enormi sacrifici, a costo del presente. Il lavoro è il centro di gravità, la spinta che gira la ruota, l’attrito che la scuote, la carezza e lo schiaffo, il bianco e il nero. Gioia, dolore, presenza, assenza, distanza e vicinanza. Il lavoro è tutto, non c’è altro. È l’inevitabile, il provvidenziale.

In quegli anni conoscerà anche il suo futuro marito, Giuseppe. Lo nota per le strade di Neuchâtel, lo conosce attraverso frequentazioni in comune. Un giorno lo trova a casa degli Stauffer, durante una delle visite che nei fine settimana continua a fare alla famiglia. Finisce che anche lui trova impiego nell’azienda edile in cui lavorano i fratelli, e in cui lavorava il padre. Poi, nel dicembre 1956 si sposano: “il matrimonio l’abbiamo fatto qui a Zogno. Ci siamo sposati al sabato, e il lunedì io ero sul posto di lavoro in Svizzera”.

Insieme prendono un piccolo appartamento a Fleurier, nel 1958 nasce il primo figlio, in Svizzera. Lo chiamano Jean-François, Rina dice che più tardi sarebbe diventato un sacramentì, parlava solo francese perché gli amichetti non sapessero che era italiano; racconta che poi, tornato in Italia a 8 anni, per un po’ i coetanei l’avrebbero chiamato “straniero!”.

La vita dei lavoratori italiani in Svizzera in quegli anni è instabile, certo non agevolata dalla politica migratoria e dal nazionalismo che dagli anni Sessanta comincia a intensificarsi, a sfociare in derive xenofobe “contro l’inforestierimento” – gli italiani sono spesso chiamati cincali, equivalente di zingari: considerati poco di buono, indolenti nel lavoro, chiassosi, scomposti.

Gli italiani sono gastarbaiter, “lavoratori ospiti”: condizione necessaria per il permesso di soggiorno è avere un contratto di lavoro. Eppure, al di là della volontà personale, non è sempre facile ottenerlo con regolarità. Nell’edilizia, spesso il contratto di lavoro è stagionale. Durante l’inverno i muratori tornano a casa. “Tornavano in Svizzera il primo marzo” dice Rina, “e si faceva una festa degli italiani”.

“Ogni tanto rientravo a Zogno anche io, anche perché nella fabbrica di orologi – quanti pianti che ho fatto – tutto d’un colpo mancava il lavoro, e brave o non brave erano tutte a casa. Una volta che eravamo tornati in Italia non arrivava più il contratto di lavoro per mio marito. Allora io e mio figlio siamo andati su dal padrone e gli abbiamo chiesto come mai non scrivevano. E ma bisogna aspettare diceva, che il lavoro c’era ma bisognava aspettare. Stavamo facendo la casa qui a Zogno, e pota i solch i ghe ole, va bene che in Svizzera si guadagnava il doppio che qui, ma se te lauret mia... Allora io sono rimasta lì, ho trovato da fare qualche faccenda ogni tanto in una casa, per mangiare, e portavo dietro sto bambino. La polizia mi ha fermata che ero senza contratto, mi ha dato la multa. Io ci ho detto Ascoltate, io sono qui, aspetto il contratto di mio marito, abito lì, ci sono due stanze. Il mio bambino alla mattina vuole il latte, vuole il pane, ma io non ho soldi, chi è che me li dà? Ho trovato quella signora lì che mi fa fare due ore alla mattina... Non è mica stato tutto rose e fiori. Che smacco a pensarci adesso...”

Si ferma. Riflette.

“Non era vita... c’era quell’abitudine lì, de tegn a mà. Mai feste, mai negot. Ti restano quelle cose lì poi, perché dopo si poteva fare un’altra vita più agiata, però non si faceva perché c’era l’abitudine. Tegn a mà! Mevvià! Metivvià per i schèch... Non è vita. Io non la consiglierei di farla. Consiglierei di non essere spendaccioni, ma di vivere. Dopo, quello che resta, resta. Perché poi quando sei a una certa età dici... Ma oramai l’è pasada...”.

La famiglia rientra definitivamente in Italia tra il 1965 e il 1966 – Rina dice che non se lo ricorda con precisione. Non importa, rispondo io. Dice che erano in Svizzera per uno scopo, e che l’avevano raggiunto, la casa a Zogno era fatta.

“Avevo due palanche, potevo anche farla un po’ di bella vita. Invece ero talmente... Non potevo star ferma, dovevo fare qualcosa, mi sono sempre data da fare, c’era in me la voglia di fare, facevo le ore, la domestica, tenevo gli anziani, facevo le notti”.

Aggiunge che finalmente, però, impara a concedersi qualcosa, riesce a spendere qualche sudato risparmio per alcune statuette di Capodimonte, o per tanto di ciò che riempie il soggiorno e ci circonda.
Fuori dalla portafinestra si vede il buio che inizia a mangiare i monti intorno a Zogno. Rina si alza dalla sedia, con po’ di fatica. “Pardon, vado a mettere un po’ di legna sul fuoco”.

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