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#bergamaschidalmondo: Clara Torrez da Bergamo per portare la Bolivia nel mondo

Racconto. Storia della fondatrice di uno dei gruppi folkloristici boliviani più conosciuti e richiesti in Europa e oltre. Famosa da noi e nel suo Paese d’origine come la “boliviana bergamasca”

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Il festival internazionale di Berlino, il carnevale di Nizza, il festival culturale di Macao in Cina, le celebrazioni di Hong Kong, unite a svariate partecipazioni a Roma, Viareggio, Mentone e altri celebri carnevali d’Europa. È il curriculum di partecipazioni internazionali dell’Associazione cultural folklorico Bolivia, fondata dalla sorridente sessantenne Clara Torrez per combattere la nostalgia.

Seduta al bar dove va solitamente a bere il caffè, Clara sfoglia il catalogo dell’ultima partecipazione internazionale del suo gruppo, in Corea del Sud, mentre ammette di essere da poco rientrata dalla Bolivia, dove è andata a recuperare nuove danze e costumi. Quello della sua associazione folkloristica è un impegno serio e serrato, fatto di allenamenti settimanali e di numerose trasferte nelle manifestazioni di mezzo mondo, ed è anche il suo orgoglio più grande.

Anche in Bolivia mi chiedono come sia possibile che chiamino sempre noi, ma io rispondo che è questione di come ti presenti e di come ti comporti nelle situazioni a cui partecipi. Se dimostri attenzione le persone ti danno fiducia” spiega Clara, delineando un modo di fare proprio del suo carattere, che si è rafforzato molto stando a contatto con il mood bergamasco.

Quando sono arrivata qui ho capito che per i bergamaschi la parola data vale più dei soldi allora io che non sapevo la lingua e non capivo il dialetto, ho cercato di dimostrare con i fatti che ero capace di lavorare e di comportarmi bene e così sono sempre stata ben accolta”.
A sentire dalle sue parole la descrizione della tipica mentalità di casa nostra affiora cristallina e lampante: “Ho iniziato facendo la badante di una signora che mi parlava solo in dialetto, non capivo niente, ma immaginavo che non fossero parole gentili (ride, ndr). Io non me ne curavo, lavoravo e cantavo per tenere alto il morale della mia signora e il mio, che ero lontano da casa e dai miei figli e piano piano la ‘zia’ (così chiamano le signore a cui fare da badanti), è diventata parte della mia famiglia e io della sua”.

Tutto è iniziato la sera di Natale del 1998, a Potosì, città boliviana nota per una grande miniera d’argento. I ladri svaligiano due negozi di elettrodomestici portando via tutto. Sono i negozi di Clara, imprenditrice trentottenne, madre di quattro bambini. “Non avevo più niente, non sapevo come tenere i negozi e come mantenere i miei figli, per cui mi sono decisa a partire. Avevo scelto di andare in Giappone, ma mi hanno rubato anche il visto. Poi una mia amica mi dice di andare in Italia, a Bergamo. Lei c’era appena tornata e mi avrebbe dato il numero della sua ‘zia’. Era lunedì. La domenica successiva ero già qua”.

Clara continua il suo racconto: “Quando sono arrivata mi avevano detto che avrei lavorato per la zia pochi mesi, perché non stava bene. Dopo due anni lei e il nipote mi hanno aiutato a portare in Italia i miei figli. Vivevamo tutti insieme, loro giocavano con lei e lei piano piano imparava lo spagnolo. Io nel frattempo facevo corsi sull’Alzheimer e studiavo per specializzarmi, sono passati altri otto anni”.

Dopo tanto tempo in questa sorta di famiglia allargata, Clara vive ancora nella stessa casa dove è stata accolta appena arrivata in Italia e non la lascerebbe per niente al mondo: “Mi arrabbio tantissimo quando dicono che via Quarenghi è brutta, rispondo che non è vero, che è una delle vie più storiche e importanti di Bergamo e che va trattata bene”. La città in qualche modo l’ha adottata: “Bergamo la sento più sicura e più bella di altre città della Lombardia, non andrei altrove”.
Qui infatti il destino di Clara si è compiuto. È lei stessa a parlarne quando ripensa al furto del suo visto per il Giappone e alle cose imparate vivendo la città. A cominciare dal carnevale di mezza Quaresima, che le ha fatto nascere la voglia di creare un gruppo con cui partecipare e celebrare le tradizioni della sua terra.

L’associazione è nata del 2001, quando a Bergamo eravamo ancora pochi boliviani – racconta – nessuno di noi aveva mai ballato in patria, però avevamo visto tutti i gruppi esibirsi durante le feste, sapevamo come dovevamo fare”. La forza di Clara, però, non è stata solo quella di creare un gruppo di danzatori boliviani, abili nei balli della tradizione e tenaci nei loro allenamenti, ma di avergli dato un’impronta molto chiara e molto lontana dai cliché legati più generalmente ai sudamericani e al loro comportamento un po’ troppo festaiolo.

Nel mio gruppo non si beve, si deve sempre essere ordinati e organizzati. Ho imparato che se ti presenti bene e rispetti le regole di chi ti chiama, la gente ti dà fiducia e continuerà a coinvolgerti in manifestazioni sempre più belle”. Così è stato e l’Associazione cultural folklorico Bolivia di Clara è cresciuta tanto, girando il mondo e le scuole, mostrando ai bambini qualcosa in più della Bolivia, dei suoi costumi e delle sue tradizioni. La sua fama è cresciuta a tal punto che potrebbe arrivare ora, dopo quasi vent’anni di attività, un riconoscimento ufficiale anche dal nuovo governo boliviano. “Non lo voglio per me, io ho già tante soddisfazioni da quello che faccio, ma lo vorrei per i miei figli e per tutti i trentuno soci. Molti di loro sono nati in Italia, eppure diffondono le musiche e le tradizioni tipiche della Bolivia”.

L’importanza della squadra è qualcosa che torna nelle parole di Clara con forza e costanza: più volte cita l’impegno dei singoli soci, fra chi balla, chi cura le coreografie, i video, le foto, la musica e ribadisce che deve tutto all’aiuto e al sostegno del suo gruppo.
È stato a un carnevale di qualche anno fa che ci hanno chiamato ‘i boliviani bergamaschi’ e hanno ragione” commenta sorridente. “Ora io e i miei figli siamo tutti italiani ed è un bene, anche per non dover richiedere il visto ogni volta che dobbiamo partire per un evento, ma c’è una cosa che non sono mai riuscita a fare. Io parlo ancora spagnolo e anche se i miei figli mi sgridano, non posso farci niente, non riesco ad abbandonare la mia lingua”.

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