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La violenza sulle donne durante il lockdown non si è fermata

Articolo. La convivenza forzata con il proprio aggressore ha reso più difficile contattare i centri antiviolenza. Le brutalità di genere, fisiche e psicologiche, sono prima di tutto una questione culturale

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Viviana è stata aggredita con calci e pugni dal compagno a 34 anni tra il 30 e il 31 marzo a Bergamo. Le violenze proseguivano da mesi e il 6 aprile la donna dopo giorni in coma è morta in ospedale. “Credo che ci sia urgente bisogno di riflettere su quanto la violenza di genere non sia un’emergenza ma una questione strutturale – spiega Laura Mentasti, sociologa delle diversità e formatrice – Secondi i dati Istat una donna su tre ha subito forme di violenza nel corso della sua vita. Sui giornali e in tv però arriva solo quella più grave, come il femminicidio, ma c’è molto che resta sommerso, come forme di violenza psicologica, economica o fisica, almeno finché quest’ultima non diventa troppo grave o visibile”.

Nei due mesi di lockdown infatti restare a casa per molte donne si è rivelato un rischio e non una sicurezza: ad aprile le richieste sono aumentate del 79,9% rispetto allo stesso mese del 2018 secondo i dati diffusi da D.i.Re, la rete italiana dei centri antiviolenza non istituzionali e gestiti da associazioni di donne.

In Italia tra il 6 aprile e il 3 maggio sono state 2.956 le donne che si rivolte ai centri antiviolenza della rete, 2.983 tra il 2 marzo e il 5 aprile e da un mese all’altro le donne che hanno chiamato per la prima volta sono passate dal 28% del totale al 33%. “La convivenza forzata ha acuito i casi di violenza e in molte situazioni si è passati dal piano psicologico a quello fisico” ha spiegato Cinzia Mancadori, responsabile dei centri antiviolenza Sirio nell’area Treviglio-Romano e Valle Brembana e Imagna.

A Bergamo a marzo e aprile di quest’anno le denunce di violenze domestiche alla polizia e ai carabinieri sono crollate del 56,3% rispetto agli stessi due mesi del 2019. Oliana Maccarini, presidentessa della rete dei centri di Aiuto Donna di Bergamo, Dalmine, Seriate, Vigano e Terno ha sottolineato che “c’è stato un forte calo di chiamate, in particolare nel primo mese: le donne non erano libere neanche di telefonare nelle prime settimane di lockdown con gli uomini sempre a casa”.

Inoltre Cinzia Mancadori ha aggiunto che “in Valle ci sono stati meno contatti che nella Bassa, perché lì non solo la situazione di emergenza data dal contagio è stata più critica, ma la nostra presenza meno radicata, dato che siamo aperti dal 2018 e il rapporto con il territorio si costruisce nel tempo. Sono calati in modo drastico anche i collegamenti con il pronto soccorso, da cui sono arrivate sempre meno donne, che non hanno attivato i percorsi di uscita dalla violenza disponibili dopo l’accesso in ospedale”.

La situazione si è poi sbloccata e “con la ripresa di molte attività produttive molti uomini sono tornati al lavoro, rendendo più semplice telefonare stando in casa– continua Oliana Maccarini – Dall’inizio della fase 2 poi le chiamate sono aumentate di nuovo. Noi siamo ancora in attesa di riaprire con i colloqui di persona, ma siamo rimaste sempre attive con le videochiamate. In realtà per molte donne ora è più semplice utilizzare il telefono perché molte hanno i bambini a casa e risulta complesso organizzarsi”. La presenza fisica, l’incontro e la vicinanza restano comunque importantissime: “per una donna vedere l’operatrice a cui affida la propria storia è fondamentale – spiega Cinzia Mancadori – il contatto umano favorisce la creazione di un rapporto di fiducia profonda”.

Queste persone vivono una condizione di profonda solitudine rispetto al loro vissuto – continua Oliana Maccarini –senso di impotenza, vergogna e timore di ritorsioni su di sé o sui figli sono solo alcuni dei freni che rendono più difficile chiedere aiuto. Magari loro situazione è nota, specie nei piccoli paesi dove la voce circola, ma anche in città un occhio nero non passa inosservato”.

Eppure spesso le persone si voltano dall’altra parte. “Sappiamo che accade – commenta Cinzia Mancadori – Fare finta di nulla è la cosa peggiore, lascia la donna nella sua invisibilità. Anche solo manifestare la propria presenza e la propria disponibilità all’ascolto può essere un primo importantissimo passo. Certo, se poi la situazione è fuori controllo e si teme per l’incolumità della donna chiamare tempestivamente la polizia può salvarla. Il gesto è coperto dall’anonimato”.

I centri antiviolenza sono a disposizione non solo per le donne vittime, ma anche per famigliari o persone che desiderano informazioni sul tema. Inoltre, pur non essendo sostitutiva del lavoro dei centri, Chayn Italia, una piattaforma che offre strumenti contro la violenza di genere alle donne che la vivono e a chi sta loro accanto, ha pubblicato una Guida alla Solidarietà di vicinato, che spiega “come riconoscere e mostrare il tuo supporto a donne che vivono relazioni violente nel tuo palazzo o nel tuo quartiere adottando comportamenti solidali e non giudicanti”.

Sensibilizzare, formare e responsabilizzare sono tre parole chiave della lotta alla violenza. “Una gran parte del nostro lavoro da sempre è sul territorio – spiega Oliana Maccarini – Dalla cittadinanza, alle istituzioni, alla scuola. Abbiamo incontrato sindaci, operatori, assistenti sociali, forze dell’ordine, insegnanti, famiglie. Il problema non può essere risolto da un ente solo, la rete è fondamentale”.

La questione della violenza domestica infatti non riguarda solo le donne che la subiscono o i centri antiviolenza, ma l’intera società” spiega Laura Mentasti, che è tra i relatori del corso online “Le radici culturali della violenza”, promosso dall’Associazione Alilò Futuro Anteriore.

Quando si fanno incontri sulla violenza di genere ci sono 100 donne e 8 uomini– continua – eppure è un fenomeno che arriva sulle donne ma parte dagli uomini”. Secondo il pedagogista Giuseppe Burgio, questa assenza maschile deriva anche da un distanziamento: “‘io non sono così, quindi non mi riguarda’. Invece la violenza di genere ci riguarda tutti ed è importante che anche il maschile si interroghi su di sé e non è una questione di raptus, anche se spesso è raccontata così dai media, ma trova le sue giustificazioni nella cultura in cui siamo immersi”.

Lo chiarisce la Convenzione di Istanbul firmata nel 2011 dagli Stati Europei: “nel preambolo è chiaramente espresso come la violenza di genere dipenda da una visione della società che mette in gerarchia il maschile e il femminile, ma anche ogni rapporto di sopraffazione, come quello tra bianchi e neri. La violenza non è un destino e noi dobbiamo cominciare a lavorare sul piano culturale, non raccontando più la violenza come risultato di uomini che agiscono d’impulso perché le donne li hanno abbandonati o rifiutati e ci fosse una colpa femminile per aver affermato una libertà di scelta che non è sopportabile e che rivela una logica di proprietà sulle donne. Riconosciamo il femminicidio come l’uccisione di una donna in quanto donna all’interno di rapporti di genere. Non attuiamo una logica giustificatoria che isola l’accaduto: è lui e solo lui, è lei e solo lei, altrimenti deresponsabilizziamo l’intero contesto sociale”.

L’educazione in questo gioca un ruolo fondamentale: “Fin dalla più tenera età noi creiamo delle gabbie che condizionano le persone – spiega la sociologa Laura Mentasti – ad esempio dicendo che la cura e la fragilità sono due caratteristiche solo femminili, tanto che se un bambino piange ha la riprovazione degli adulti e dei pari. Non accentuiamo solo le differenze biologiche, che ci sono e determinano un modo culturale di stare al mondo. Parliamo anche delle somiglianze. Il Coronavirus in questo senso le ha rese evidenti: la cura e la sensibilità per gli altri hanno accomunato sia donne che uomini, da medici e infermieri, a chi ha supportato i propri famigliari. Queste sono caratteristiche umane, che ci accomunano tutti, siamo interdipendenti e abbiamo bisogno di prenderci cura di noi stessi e allo stesso tempo degli altri. La mascherina che protegge sia me, sia gli altri è un ottimo esempio di questo, che dovrebbe farci riflettere”.

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