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Ritratto di famiglia ai tempi del coronavirus #2

Racconto. Le nostre vite sono cambiate e tutti ci chiediamo: “Fino a quando?”. Inutile pretendere che questa sia una situazione facile da gestire. Non mortifichiamoci ma cerchiamo solo di essere gentili

Lettura 6 min.

La routine della casa è scandita da appuntamenti banali, che assumono un’importanza straordinaria. Uscire a buttare la spazzatura o a controllare la posta è l’evento del giorno. Per decidere cosa cucinare c’è una pianificazione che un tempo dedicavamo ai viaggi e alle vacanze. Per il settimo sabato di fila ordineremo la pizza da asporto, il nostro lusso settimanale. Cominciamo giorni prima a consultare la lista e a confrontarci sulla scelta: capricciosa, salamino piccante, rucola e grana, affumicata, sorpresa del pizzaiolo.

Conosco a memoria il giro del sole in ogni stanza del mio appartamento. Ringrazio il cielo di avere fatto in tempo a traslocare, anche se mi mancano il forno in cucina e la metà delle luci. Vorrei avere in casa la vecchia cyclette di mia nonna, o almeno una corda per saltare, o un tappetino per gli esercizi, visto che sto usando il materassino del divano letto. È stupido rimpiangere la corda per saltare quando negli ospedali la gente muore?

Rileggo il mio vecchio “Ritratto di famiglia ai tempi del Coronavirus” e mi sembra sia passata un’era geologica: è esistita davvero un’epoca in cui il virus c’era, ma si poteva andare al parco con i bambini? In cui ho pranzato con le amiche? In cui avevo comprato un rossetto nuovo e il sindaco invitava ad andare a mangiare la pizza?

Intanto, quella vocina in sottofondo che diceva “Fino a quando?” si è trasformata in un rompicapo ossessivo che non so risolvere: non possiamo vivere rinchiusi per sempre, ma se non stiamo rinchiusi rischiamo di non vivere.

Come stanno reagendo le famiglie a questa mancanza di prospettiva, nell’ombra delle loro case? Io alterno giorni in cui mi sento una miracolata – non è ancora morto nessun parente stretto, nemmeno il nonno in casa di riposo, evviva! – ad altri in cui il peso al petto si fa più opprimente.

Mamma sei contenta?

Mamma, sei contenta?” è il tormentone di mio figlio di due anni e mezzo quando mi vede triste. I figli. Passati dall’essere un problema logistico (accompagnarli, affidarli, monitorarli, riprenderli) a una costante presenza 24 ore su 24. Con mio marito abbiamo convenuto che una quarantena senza figlio sarebbe stata più semplice. Ci fanno sorridere gli amici che ci consigliano le piattaforme di streaming cui abbonarci: noi riusciamo a vedere solo Rai YoYo. Vorrei poter rivestire il ruolo della madre premurosa che non chiede nulla per sé, ma supplica un’ora d’aria per i bambini. Sarei una perfetta ipocrita: uscire servirebbe molto di più a me che a lui. Lui è contento di stare a casa con i suoi genitori. Abituato ad andare al nido, ai giardinetti, a dormire dai nonni quando serve, a socializzare con chiunque, si è adattato senza problemi alla nuova routine. A volte mi chiedo cosa pensi: perché non mi chiede mai di andare dalla nonna o dai cigni del parco? Avrà capito tutto? Starà soffrendo in modi che non capisco?

Apatici e iperattivi

Mio marito è sempre stato quello psicologicamente più stabile della coppia, uno dei validi motivi che mi hanno spinto a sposarlo. Lo è ancora: sta a casa senza fare un plissé, non si lamenta, non ha crisi di rabbia. Fa lo stretto necessario per tirare avanti, ma è diventato più apatico. Qualche giorno fa mi ha detto: “Dormo il più possibile perché non c’è una valida ragione per alzarsi dal letto”. Una frase che mi ha fatto male, perché vera. Io sono l’opposto: cerco di mettere la sveglia il prima possibile per avere del tempo per me da sola e mi invento qualsiasi cosa per essere “produttiva”: dal lavorare il più possibile al travasare le piante aromatiche sul balcone, dal chiamare la cugina di secondo grado al pulire dietro i termosifoni. Però poi crollo: mi arrabbio, mi deprimo, rispondo male, non trovo pace.

La paura di impazzire

Quando qualche sabato fa (ho perso il conto) è uscito il decreto di Fontana che impediva qualsiasi tipo di attività motoria fuori casa, ho sbroccato. A differenza di Manuela, che ci ha raccontato così bene la sua passione, io non sono una runner, ma uscire a camminare è sempre stata la mia soluzione preferita ai problemi. Non riesco a rassegnarmi al fatto che sia lecito andare a fare la spesa in un supermercato pieno di gente (ho visto assembramenti tipo stadio al reparto frutta e verdura) mentre camminare da soli, di notte, in strade discoste, senza incontrare anima viva, sia proibito. Le amiche, sante amiche, mi fanno ragionare: “Se lo facessero tutti la strada non sarebbe più deserta”. E d’accordo.

Una pacca sulla spalla

Le reprimende contro chi esce mi ricordano i tempi della scuola, quando i professori facevano la morale agli assenti ingiustificati rivolgendosi agli alunni presenti in classe. Ogni tanto sarebbe stato bello sentirsi dire “Bravi” per essere venuti a scuola, nonostante la verifica di matematica. Così come oggi mi piacerebbe che venissero riconosciuti pubblicamente gli sforzi della stragrande maggioranza dei cittadini, quelli che stanno a casa il più possibile. Un desiderio puerile, dato che “Stiamo solo facendo il nostro dovere”, parafrasando il professore arcigno di ieri o l’implacabile amministratore pubblico di oggi. Però una metaforica pacca sulla spalla rimane quello di cui molti di noi, io di sicuro, avrebbero bisogno.

Mi ha salvato il pilates

Il mio problema è che ho sempre odiato il fitness e la palestra: sono scoordinata, non capisco le indicazioni che mi vengono date, mi annoio, rischio di farmi male, non riesco a liberare la mente (che è quello che mi succede camminando). Perciò i mille programmi di allenamento online non mi sono di aiuto. È venuta in mio soccorso una cara amica, che pur non essendo una maniaca della forma fisica fa pilates da anni e si ricorda a memoria gli esercizi. Ci diamo appuntamento ogni giorno davanti al pc per farli insieme. È un’attività noiosissima, ma proficua, che mi fa stare meglio e mi lascia un senso di benessere duraturo. Resta il fatto che chiunque affermi che si possa fare sport in casa con lo stesso profitto e divertimento di una partita a calcetto o di una corsa, sta mentendo. Lo facciamo perché siamo costretti, ma non pretendiamo che sia bello.

Non diteci che è una vacanza

Per fortuna, mano a mano che la quarantena va avanti, vanno scemando i tutorial che ci spiegano come sfruttare al meglio il nostro tempo e come approfittarne per “goderci i bambini”, “cucinare nuovi piatti”, “rimettersi in forma”, “meditare sulla vita”, “riposarsi”, “imparare cose nuove, magari una lingua straniera”, “fare grandi maratone di serie tv”. Sentirsi dire – da estranei che voglio credere dotati delle migliori intenzioni – che questa è una specie di vacanza di cui godere al massimo è quanto di più irritante e deleterio possibile. Abbiamo il dovere di tirare avanti nella maniera più dignitosa possibile, questo sì, ma nulla più. Soffriamo tutti, stringiamo i denti tutti.

Facciamoci i complimenti

Per questo non sopporto la caccia all’untore. Voglio credere che chi si trova per strada – pochissimi a onore del vero – lo faccia per un buon motivo. Se non è così, non mi interessa. Vedo il vicino anziano che ogni mattina esce a prendere il giornale: dovrei arrabbiarmi? Non mi riesce. La compattezza sociale, la benevolenza, la solidarietà sono l’unica possibile medicina per la mia mente. Sto cercando di essere il più gentile possibile, cosa che non sempre mi riesce vista la mia innata predisposizione alla franchezza e all’insofferenza (mio marito conferma che non sono capace: l’ho appena rimbrottato in malo modo perché non trovava i calzini del bambino). Però cerco di non dimenticarmi mai di fare un complimento sincero: al collega di lavoro sempre efficiente, all’amica che fa isolamento domestico col marito medico e combatte contro le crisi di panico, a mia nonna che ha imparato a rispondere alle videochiamate, all’amico malato che resiste chiuso in casa senza assistenza.

Il gioco delle parti

Qualche giorno fa, con l’amica del pilates, ho fatto un ozioso giochino al telefono: al netto dello stato di salute, qual è la condizione migliore e quella peggiore per passare la quarantena? Lei mi ha rivelato che non sarebbe mai riuscita a convivere con i suoi genitori, con i quali non ha mai avuto un buon rapporto. Poi abbiamo convenuto che le persone sole in casa hanno tutta la nostra compassione: è davvero una condizione alla “Cast Away”, dove per la solitudine si può impazzire. D’altronde anche dovere condividere gli spazi con qualcuno che non si sopporta è dura. E, infine, il calcolo meticoloso delle metrature: l’insofferenza diminuisce all’aumentare del singolo metro quadro della casa. Il giardino è un bonus da mille punti, il balcone vale cento, aumentabili in caso di esposizione al sole.

Nessuno si salva da solo

Avrei fatto meglio a comprare una villetta in periferia piuttosto che un appartamento in città? O meglio ancora una baita in montagna, il mio sogno proibito in questo momento. Vivo e vedo una grande voglia di affrancarsi dalla società, nei post dei miei amici che si scambiano consigli ispirati al survivalismo. Sono comunque più simpatici di quelli che invocano il Grande Fratello (non quello in tv, ma quello di Orwell) o lo Stato di Polizia. Eppure nessuno si salva da solo, lo ha detto il Papa e ce lo dovremmo ricordare ogni volta che facciamo la spesa, utilizziamo Internet (ci dimentichiamo sempre che dietro un servizio “immateriale” c’è il lavoro di tante persone) e guardiamo le immagini del nuovo ospedale costruito da zero. Siamo isolati, ma non siamo soli. La differenza è tutta qui.

(immagini grafiche di StocKNick e one line man, fotografie di tg21495, Stock2You, nontthepcool, elaborazione grafica di Marta Belotti)

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