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Perché risanare l’ingiustizia sociale è la chiave per iniziare a risolvere la crisi ambientale

Articolo. ATTENZIONE: EVENTO ANNULLATO PER LUTTO. Daniela Padoan ci ricorda che non esiste giustizia ambientale senza giustizia sociale e che dobbiamo tornare a prendere responsabilità sulla nostra casa comune. Appuntamento con la scrittrice venerdì 14 all’ex Monastero di Astino per «Molte fedi sotto lo stesso cielo»

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(foto Jacob Lund)

Non solo uno slogan politico, a volte talmente sfruttato da svuotarsi del suo vero contenuto, ma anche e soprattutto un’affermazione programmatica, «uno dei concetti più forti contenuti nell’enciclica “Laudato si’” di Papa Francesco, pubblicata nel 2015 e dedicata alla cura dell’ambiente». Così Daniela Padoan, scrittrice, saggista e autrice televisiva introduce i due concetti cardine di giustizia ambientale e giustizia sociale, al centro di molti dibattiti di attualità ma troppo spesso nominati senza approfondirne il significato.

«La coesistenza di queste due dimensioni è evidente in tante crisi che si intrecciano in questo difficile periodo: climatica, ambientale, economica, bellica, pandemica», spiega Padoan. «Per esempio», continua, «la crisi pandemica ci ha costretto a vedere quanto la distruzione degli habitat produca fenomeni di spillover, salti di specie che finiscono con il colpire gli esseri umani in un mondo sempre più globalizzato e interconnesso, e in particolar modo le persone più fragili, più povere, che hanno meno possibilità di difendersi dal virus a causa di un ridotto accesso all’acqua potabile e ai vaccini».

La conclusione è una sola: «Non si può pensare a un mondo risanato dal punto di vista del disastro ambientale che abbiamo prodotto, senza includere il risanamento delle ingiustizie socio-economiche». Questa riflessione non è solo un punto di arrivo ma anche e soprattutto un punto di partenza per l’intervento di Padoan per l’edizione in corso di «Molte fedi sotto lo stesso cielo», dal titolo «Ambiente: una sfida geopolitica?», che avrà luogo il prossimo venerdì 14 ottobre alle 20.45 presso l’ex Monastero di Astino. Un evento del filone «Esodi e geopolitica: indagare i crocevia della civiltà per un pianeta più ospitale».

Daniela Padoan da anni si occupa di razzismo e dei totalitarismi del Novecento, con particolare attenzione alla testimonianza delle dittature e alle pratiche di resistenza femminile ai regimi. È presidente dell’associazione «Laudato si’ – Un‘alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale». Dal luglio 2014 è stata portavoce in Italia dell’eurodeputata Barbara Spinelli, con la quale ha lavorato sui temi dei diritti, delle libertà civili e della migrazione.

Il suo intervento per «Molte fedi sotto lo stesso cielo», la rassegna culturale promossa dalle Acli di Bergamo che da quattordici anni anima la città e la provincia nei mesi autunnali, ha il valore di riportare la crisi ambientale su un piano di discorso integrato. Ambiente, geopolitica, società, economia, religione sono tutte sfaccettature di uno stesso problema, che, per essere affrontato con efficacia, deve affrontarle una a una. Un obiettivo insito nel programma stesso di «Molte fedi», che vede dialogare scrittori, filosofi, giornalisti, diplomatici, testimoni intorno ad alcune tematiche fondanti il nostro vivere civile, con il fine ultimo di costruire insieme terre di mezzo tra fedi e culture diverse.

Molto spesso, infatti, come fa notare Padoan, è proprio dall’incontro e dallo scontro tra dimensioni antitetiche che nascono i maggiori contrasti e si creano luoghi non solo simbolici in cui è evidente un ampio divario. Un esempio è la collina di rifiuti elettronici di Agbogbloshie, in Ghana.

Racconta Padoan: «lì sono ammassati più di 250 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, che provengono per il 75% dai Paesi ricchi, spesso esportati attraverso circuiti illegali. Le persone vivono su una distesa di scarti – ridotte anch’esse a scarti, come scrive papa Francesco nella «Laudato si’» – e si sostentano cercando di separare le componenti rivendibili degli elettrodomestici, bruciando le guaine dei fili elettrici per recuperare il rame, o le parti plastiche di computer e tablet in roghi che generano una costante nube di sostanze tossiche».

Un altro esempio è la bidonville ai confini di Durban, in Sudafrica: «da un lato della strada si vede, a perdita d’occhio, una distesa di baracche assolate, senza un filo d’erba; dall’altro una distesa verdissima di prati continuamente annaffiati: campi da golf per le persone più ricche di Durban, recintati da alte barriere di filo spinato e continuamente pattugliati da servizi di sicurezza».

Questa e altre scene di iniquità, dove è evidente l’impari distribuzione delle risorse, sono oggetto di un progetto del fotografo sudafricano Johnny Miller, «Unequal scenes», che «ha denunciato, riprendendoli dall’alto, con un drone, i muri invisibili che separano chi diventa uno “scarto” da chi vive sull’accumulazione di ricchezza». Nato come progetto di fotografia aerea nel 2016, oggi «Unequal scenes» denuncia il mondo come luogo diseguale e disumanizzato, dove è in atto «un disconoscimento pianificato e intenzionale della classe operaia e dei poveri».

Quella tra «ricchi» e «poveri» è una forbice della disuguaglianza che si fa sempre più ampia, specialmente se ne si considerano gli estremi. Come riassume Padoan, «durante lo scorso anno, l’1% di popolazione più ricca del mondo ha accresciuto, per il secondo anno consecutivo, la propria quota di ricchezza, fino a raggiungere il 45,6% nel 2021 rispetto al 43,9% registrato nel 2019. Nel frattempo, nel mondo 129 milioni di ragazze sono fuori dalla scuola, 50 milioni di persone vivono in schiavitù. I paesi a basso e medio reddito ospitano l’89% delle persone esposte alle inondazioni nel mondo».

L’impatto che abbiamo sul Pianeta è ancora più grave di così e va oltre i confini della nostra specie, tanto da intaccare la struttura stessa della Terra. Si parla di Antropocene, «l’era geologica che molti scienziati fanno iniziare, per convenzione, con gli esperimenti atomici in New Mexico, che hanno preceduto il lancio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, perché da allora gli isotopi radioattivi sono entrati nelle rocce sedimentarie, così come le plastiche, entrambi prodotti umani, inesistenti in natura».

Gli effetti saranno visibili per centinaia di migliaia di anni: «chi vivrà ere geologiche dopo di noi, se ci sarà, rintraccerà tracce della nostra presenza negativa sulla Terra: una specie intelligente e creativa che è stata capace di produrre un inquinamento irreversibile e di erodere le possibilità di vita di molte forme animali, tra cui sé stessa».

Sulla nostra centralità nei processi storici è improntata non solo la geologia ma anche il sistema economico: «Pensiamo che gli esseri umani abbiano diritto allo sfruttamento del Pianeta, con tutto ciò che contiene, quasi fosse un serbatoio di risorse destinate a trasformarsi in merce». Secondo Padoan dovremmo invece staccarci da questo modello di pensiero, tipicamente occidentale, che ha «rimosso la nostra comune appartenenza all’animale», e avvicinarci a ciò che pensano altre culture, e cioè «che tutto sia connesso, che i laghi e le montagne siano entità da rispettare, figli della Terra, come gli esseri umani e tutti i viventi».

Il problema del nostro approccio antropocentrico è che non ci curiamo degli scarti che ci lasciamo alle spalle, siano essi fisici o metaforici. Padoan spiega questo concetto riportando di nuovo un paragone economico: «se pensiamo al principio dell’economia lineare, che estrae e consuma senza curarsi di restituire alla natura, e la rapportiamo all’economia circolare, che invece ricicla e riusa nel rispetto di tutte le esistenze, ci accorgiamo che lo stesso meccanismo viene applicato alle persone, spesso ridotte a vivere ai margini, sfruttate, impoverite, viste secondo categorie di utilità, o inutilità sociale».

E così come per gli esseri umani, ci siamo dimenticati di qualsiasi forma di rispetto per le altre specie che popolano il Pianeta. «In due secoli abbiamo drasticamente ridotto le foreste, sterminato ed estinto animali, in un continuo massacro al quale siamo abituati e che continuiamo a causare con indifferenza», denuncia Padoan.

Quello che ci serve, secondo Padoan, è una completa inversione di rotta, un cambio di paradigma, che vada oltre la nostra tendenza a non saper vedere oltre la crisi contingente e a dimenticarci dei problemi nel momento in cui l’emergenza rientra. «Dobbiamo ricordarci che anche le periferie, i margini fisici ed esistenziali, sono luoghi di ricchezza, umanità e crescita per tutti. Non basta avere un’idea di aiuto, di accudimento verso i poveri, non è con la beneficienza e l’assistenzialismo che si cambiano le cose, ma con un vero ripensamento dei nostri stili di vita e delle nostre priorità».

L’associazione «Laudato si’», di cui Padoan è presidente, a partire dalla pubblicazione di «Niente di questo mondo ci risulta indifferente» ha avviato un processo di formazione e autoformazione, portando le elaborazioni dell’ecologia integrale nelle scuole, sui posti di lavoro, nei territori. «La formazione che proponiamo è uno sforzo per cogliere la complessità del mondo in cui viviamo, ed è anche autoformazione, perché viviamo nell’era delle specializzazioni, ciascuno sempre più chiuso nelle proprie competenze, ma tutto è interconnesso e chiede di portare lo sguardo all’orizzonte complessivo».

L’idea è non solo «avere cura», ma recuperare anche una dimensione che abbiamo dimenticato, quella di corresponsabilità sulla nostra «casa comune».

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