Il maestro che difende
la speranza tra gli indios

Numeri, percentuali, bilanci, da una parte; dall’ altra, una serie di facce che emergono da una foto: bambini, ragazzini, i volti già segnati dal sole e dal vento, le mani già segnate dal lavoro; alcuni scalzi, altri vestiti di tele tanto logore da parere trasparenti; un anziano maestro, un cane «brutto e spelacchiato» che sembra dirigere quel coro muto. Chiudere o non chiudere la «Escuela Articulo 123», ultimo esemplare delle scuole-vagone?

L’ esperimento educativo, cioè, che il governo messicano aveva varato, decenni prima, per dare un’ istruzione anche alle famiglie «nomadi», ai figli degli operai delle ferrovie e dei braccianti stagionali.

That’ s the question, il rovello che tormenta l’ ispettore capo della Dirección General de Educación, Hugo Valenzuela.

Un conto è avere a che fare con freddi conti, considerazioni burocratiche, indicazioni politiche; un altro con facce di animali sensibili, che sembrano coltivare una speranza nonostante tutto, affiorando sorridenti da una vecchia foto in bianco e nero, dai margini ingialliti. Quasi presaghi che il loro sorriso avrebbe potuto contrastare, in un futuro indeterminato, la chiusura della loro scuola.

«La scuola sui binari» (Feltrinelli, pp. 206, euro 16) è l’ ultimo libro della scrittrice e giornalista catalana Ángeles Doñate. Romanzo che si divide fra i dubbi che affliggono il pur rigorosissimo e implacabile funzionario, mettendone a rischio la carriera, e le vicende dei piccoli allievi della scuola vagone. Ikal, che, a 11 anni, scopre il primo amore («aveva la forma di un fiume di capelli neri») e l’ amicizia, con il brutto ma sveglissimo cane della foto. O Chico, picchiato e maltrattato dal padre, che per incoercibile spirito di rivalsa si mette a combattere, a suon di piccoli furti e danneggiamenti, con il proprietario delle terre dove i braccianti, padre compreso, sudano le loro fatiche. Una guerra che aveva già perso molti anni prima di nascere.

Riferimento, chioccia, per questi pulcini un po’ meticci, un po’ indios, un po’ bianchi, tutti un po’ spennati, sporchi e straniti, don Ernesto, l’ anziano maestro, che non va in pensione per non lasciare che la scuola sia chiusa. Eroe dell’ insegnamento come contagio, come passione e missione, come amore e piacere, che non si arrabbia mai per quello che gli allievi non sanno, ma per quello che non vogliono sapere. Una bella figura di resistenza umana, nel senso più alto di humanitas. Non a caso il libro è dedicato a «tutte le maestre e i maestri che difendono la speranza armati solo di matite colorate».

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