Giuseppe Gramegna: «Ho visto la morte e ora dico a tutti: il vaccino ci salva»

Il cardiochirurgo di Humanitas Gavazzeni grave per Covid nel marzo 2020. Ricevette l’Estrema unzione, l’intervista per la nostra rubrica #iomivaccino.

Giuseppe Gramegna, cardiochirurgo alle Cliniche Humanitas Gavazzeni di Bergamo, ci racconta la sua esperienza con il Covid-19. Originario di Roma, ha studiato Medicina nella Capitale e poi ha lavorato in diversi ospedali tra Sassari e Milano. Gramegna, 61 anni compiuti a settembre, è arrivato nella nostra città 5 anni fa.

A causa del Covid-19 lei è finito in terapia intensiva vivendo sia da medico sia da paziente il dramma nei momenti peggiori della pandemia.

«Devo ammettere che questa infezione mi ha molto sorpreso, anche perché all’inizio pensavo che sarebbe rimasta confinata in Cina. Quando abbiamo registrato i primi contagi anche in Italia ho invece compreso la gravità della situazione».

Il Covid-19 ha iniziato a mietere migliaia di morti nella Bergamasca.

«Durante la prima ondata eravamo impreparati e ci siamo subito ammalati con epicentro proprio nella provincia di Bergamo. Anche io ho contratto il Covid e sono stato subito ricoverato. Ricordo quel momento come se fosse ieri, anche perché era il 9 marzo 2020, primo giorno di lockdown».

Cosa si prova, da medico e da paziente, a combattere un nemico sconosciuto e invisibile?

«Per certi versi non si ha tempo per la paura. Io vivo a Bergamo da solo, in quanto la mia famiglia è rimasta a Roma e di conseguenza ho avuto il grande supporto dei miei colleghi medici e infermieri. Sono stato accompagnato in ospedale e le mie condizioni erano apparse subito non buone, tanto che la tac aveva evidenziato una situazione molto compromessa con una polmonite estesa e bilaterale. Ero in pratica uno dei pazienti che rischiavano la vita a causa del virus».

Da quello che racconta, è sempre rimasto vigile, anche durante i giorni di ricovero in terapia intensiva.

«Esatto, subito dopo la diagnosi mi è stato somministrato ossigeno e montato il casco Cpap, ma anche questo non era sufficiente, così i miei colleghi hanno deciso di procedere con la tracheotomia e la ventilazione meccanica. Ero sveglio e mi facevo capire a gesti dagli infermieri, con i quali fino a poche ore prima avevo lavorato gomito a gomito. Nel frattempo davanti agli ospedali aumentavano le code di ammalati e nei giorni a seguire avremmo assistito ad un boom di morti causa Covid».

È riuscito a informare la sua famiglia a Roma della situazione che stava vivendo?

«Tramite i colleghi sono riuscito a contattare mia moglie e i miei figli. In quei momenti anche i pazienti con parenti vicini era come se fossero dall’altra parte del mondo, perché non si poteva entrare negli ospedali. Gli addetti della direzione sanitaria giravano tra i letti per fare le videochiamate a casa di tutti i malati, offrendo evidentemente un supporto non solo clinico. Il mio vicino di letto in terapia intensiva era di origine peruviana e hanno dovuto organizzarsi per telefonare alla moglie in Perù, calcolando il diverso fuso orario. La preoccupazione era tanta e, in cuor mio, avevo ben chiara la prospettiva di una morte vicina, tanto che nessuno me lo poteva togliere dalla testa».

Una sensazione che l’ha accompagnata durante tutta la degenza?

«Ho bene in mente gli occhi di coloro che mi visitavano: non riuscivano a guardarmi in faccia perché sapevano la mia gravità. Un collega ricoverato è morto proprio accanto a me e ho visto decine di salme che venivano portate via. Sono salvo grazie ai miei fantastici colleghi e alla Provvidenza di Dio».

Nei giorni più duri della pandemia, infermieri e medici erano esausti e anche scoraggiati dall’alto numero di decessi.

«Il personale sanitario non si è mai riposato e ha fatto l’impossibile per curare tutti gli ammalati, ma purtroppo numerosi pazienti non rispondevano alle terapie. Di fatto, si moriva come in guerra, senza un perché e non c’era tempo per la paura o per la preoccupazione. Vivevamo una situazione alla quale ci si era quasi rassegnati. Durante il ricovero ho ricevuto l’Estrema unzione da don Claudio Del Monte, il parroco della Malpensata che sostituiva il nostro cappellano».

Fortunatamente poi le sue condizioni sono migliorate e ha potuto uscire con le sue gambe dall’ospedale.

«Dopo quasi due mesi, sono stato dimesso con tamponi negativi e anticorpi alle stelle. Ero vivo, con 20 chili in meno e senza energie, tanto che facevo fatica a muovermi».

Qual è stato il suo desiderio più grande?

«Riabbracciare i miei familiari. Nonostante dovessi riprendermi fisicamente e con il buco sul collo a causa della tracheotomia, sono partito per Roma a bordo di un’automedica noleggiata per l’occasione. Rivedere mia moglie è stata una grande emozione. Lei è bergamasca, ci siamo conosciuti a Roma 40 anni fa, mentre frequentavamo Azione Cattolica e siamo sposati da 32 anni. Lei insegna in un liceo della Capitale e ha seguito dalla televisione il dramma che abbiamo vissuto a Bergamo. Dopo 600 chilometri in auto, dove non abbiamo incontrato anima viva, mia figlia mi ha detto che sembravo un bambino con i vestiti del fratello più grande. Ci siamo messi a ridere...».

In molti pazienti il Covid ha creato parecchi problemi anche post guarigione.

«Io sono stato fortunato e il primo luglio ho subito ripreso servizio. Dalla seconda ondata pandemica sono insomma tornato a fare il medico cardiochirurgo».

Immaginiamo ci sia stato un rallentamento delle attività a causa della pandemia.

«Durante il primo lockdown era tutto bloccato e i posti occupati da malati Covid, mentre nella seconda ondata abbiamo lavorato per riequilibrare gli interventi necessari. Qualche paziente si è chiaramente aggravato perché non era più riuscito ad avvicinarsi all’ospedale e molti colleghi sono usciti esausti dai turni massacranti portati avanti durante la fase peggiore. Tutti speravamo che l’estate 2020 spazzasse via il Covid e i brutti ricordi, invece il virus si è ripresentato con seconda e terza ondata e oggi aspettiamo la quarta sperando che le misure adottate in Italia risultino efficaci. Questa è una malattia globale, dove non si guarisce da soli, ma deve uscirne tutto il mondo, ricchi e poveri, vicini e lontani».

La campagna vaccinale sta proseguendo a buon ritmo, nonostante le proteste dei no vax.

«Il vaccino è l’unico modo che abbiamo per uscire dall’emergenza e per salvare vite umane. In molti sono fortemente diffidenti, per paura o per partito preso, anche perché hanno assistito quotidianamente ad una risonanza mediatica che è stata data alla discussione scientifica, che normalmente avviene a porte chiuse. Sono infondati i timori di coloro che hanno paura del vaccin o per via dell’inoculazione di parti di Dna: quando parliamo di Dna, tengo a precisare che ce n’è molto di più nel virus rispetto al vaccino. Tutti dobbiamo capire che la campagna di vaccinazione tutela sia noi che il prossimo: il mondo intero è malato e tutti insieme dobbiamo contribuire a guarirlo. Vaccinatevi tutti, è l’unica via per salvarsi».

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