Nando Pagnoncelli: «Ho detto sì perché
credo nella scienza e onoro la memoria»

Il presidente di Ipsos: «Vaccinarsi è un gesto di rispetto per gli altri, anche per chi non c’è più».

Questa volta Nando Pagnoncelli, presidente di Ipsos, non sta dalla parte del sondaggista, ma del destinatario della nostra indagine. Ugualmente a suo agio.

Presidente, come è messo a vaccini?

«Perfettamente. Mi sono vaccinato convinto e senza indugio appena possibile: la prima dose il 26 marzo, la seconda il 21 giugno e a giorni a la terza. Nessuna esitazione in famiglia, tant’è che mia moglie, insegnante alle Medie, quindi a contatto quotidiano con i suoi studenti, se l’è un po’ presa perché io, come docente a contratto alla Cattolica di Milano pur non essendo a contatto con gli studenti perché impegnato con lezioni ed esami in remoto, sono stato chiamato prima di lei. Aggiungo che avendo due figli che vivono a Londra e che non abbiamo visto per oltre un anno, abbiamo salutato con grande sollievo il momento in cui hanno potuto immunizzarsi, soprattutto tenuto conto delle discutibili modalità con cui in Gran Bretagna hanno gestito la pandemia. Lo stesso sollievo provato quando si è vaccinata mia suocera ultranovantenne».

Cosa l’ha spinta, come cittadino, a vaccinarsi?

«Quattro motivi. Il primo, molto forte, è la fiducia nella scienza, nella ricerca e nel settore farmaceutico. Le case farmaceutiche si sono attivate immediatamente, mettendo a disposizione ingenti investimenti e ricercatori di primo livello, a partire dai tantissimi italiani, per trovare i vaccini in tempi così rapidi. Se negli ultimi decenni la speranza di vita è aumentata significativamente nei Paesi occidentali è anche grazie ai progressi della ricerca scientifica e farmacologica. L’Italia è leader nella produzione di farmaci in Europa con un fatturato pari a 34 miliardi di euro nel 2019, quindi prima del Covid: un settore d’eccellenza, però soltanto l’11% degli italiani sa che siamo leader europei grazie anche all’export. Un motivo in più per fidarsi».

Veniamo alle altre spiegazioni.

«Il secondo motivo, e qui parlo da bergamasco, è il dovere della memoria. Abbiamo vissuto un’emergenza acuta e come possiamo scordarlo? Quindici pagine di necrologi su “L’Eco” tutti i giorni, una sepoltura ogni 20 minuti e poi l’immagine simbolo del 18 marzo 2020, quella dei mezzi militari che portavano via le bare. Il passato non passa. Vaccinarsi costituisce un dovere anche per rispetto verso chi ha sofferto tanto. La terza motivazione ha a che fare con il senso civico, tema molto dibattuto ed è evidente che serva una riflessione sull’equilibrio fra diritti e doveri, sottolineando che il cittadino non è titolare della libertà assoluta perché i suoi diritti trovano un limite in quelli degli altri e il diritto alla salute è garantito a tutti dalla nostra Costituzione. Facendo un parallelo tra i vaccini e le regole del Codice della strada, mi domando cosa accadrebbe se una parte della popolazione, sebbene minoritaria, rifiutasse l’utilizzo del semaforo agli incroci stradali. Immaginiamo qualcuno che non consideri il divieto di procedere con il semaforo rosso come una garanzia per se stesso e per gli altri, ma come un sopruso, una limitazione alla sua libertà di avanzare. Arrogandosi il diritto di passare con il semaforo rosso metterebbe a repentaglio l’incolumità sua e degli altri. Lo stesso avviene con chi si oppone ai vaccini. Non dimentichiamo però che i no vax sono una minoranza, mentre la maggioranza esprime una sorta di censura sociale contro chi non rispetta questo dovere; mi piacerebbe che questa riprovazione si potesse ritrovare anche in altri ambiti della vita civile: ad esempio, evasione fiscale, Codice della strada, abusi edilizi».

La quarta, immaginiamo, chiama in causa il mondo global, l’interdipendenza.

« Mi sia concessa la franchezza: se tutti si rifiutassero di vaccinarsi sarebbe una tragedia, pertanto opporsi al vaccino è un lusso, un capriccio che alcuni si possono permettere solo grazie al fatto che gli altri si vaccinano. È come il Marchese del Grillo, superbamente interpretato da Alberto Sordi, che diceva “Io so’ io, voi nun siete nulla (l’espressione originale era più greve ndr)”. Ma bisogna avere uno sguardo che superi anche la dimensione dell’Italia. Noi ci possiamo permettere di rinunciare al vaccino, perché siamo nati nella parte fortunata del mondo, ma ci sono Paesi nei quali la percentuale di popolazione vaccinata si attesta su livelli drammatici: nel Congo solo lo 0,16% ha ricevuto almeno una dose, nel Ciad l’1,17%, in Somalia il 3,6%, in Nigeria il 3,37% e potrei continuare con altri Paesi a noi più vicini, nei quali la quota non supera il 30%. Da noi l’opinione pubblica è divisa sulla somministrazione del vaccino ai bambini dai 5 agli 11 anni, ma se facessimo un sondaggio in Afghanistan dove, come ha scritto “L’Eco” nei giorni scorsi, 3 milioni e 200 mila bambini sotto i 5 anni sono a rischio malnutrizione, lei pensa che quella umanità alla deriva si opporrebbe? Proviamo a riflettere: sono nato a fine anni ’50, ho fatto tutte le vaccinazioni, nessuno allora si poneva problemi, i nostri genitori avevano fiducia nella medicina e nella scienza, e in questo modo abbiamo debellato malattie come vaiolo e poliomielite. Tutto questo viene oggi dato per scontato. Ma non tutte le persone che non si sono vaccinate contro il Covid sono da considerare no vax duri e puri (o impuri), non si deve fare di ogni erba un fascio. Ci sono persone che non possono vaccinarsi per ragioni di salute e ci sono persone che manifestano dubbi sull’efficacia del farmaco e preoccupazione per i possibili effetti avversi. Dobbiamo prendere sulle nostre spalle queste paure, provando a rassicurare costoro che l’unico rimedio è il vaccino».

E intanto bisogna vedere gli sviluppi della variante Omicron.

«In questo periodo il monitoraggio del Covid segnala un’ulteriore crescita delle apprensioni: prima in estate con la variante Delta poi rientrata, oggi con Omicron. Attualmente il 46% degli italiani ritiene che il peggio sia alle nostre spalle. Prima della variante sudafricana la quota era del 52-53% e c’è poi un 17% che pensa che il peggio debba ancora arrivare. Quando poniamo la domanda “Secondo lei, quando usciamo da questa situazione?”, la risposta media del campione, nell’ultima rilevazione di una settimana fa, parla di 18 mesi e mezzo. Significa che circa il 48% degli italiani la vede ancora lunga. Anche questa panoramica dovrebbe indurci ad accelerare la corsa ai vaccini, tendenza che registriamo positivamente. E sottolineando che l’Italia sta meglio di altri Stati europei e ciò è motivo d’orgoglio nazionale: ce lo ha ricordato recentemente anche Angela Merkel, ce lo dicono i risultati della campagna vaccinale e di tutte le altre misure che all’inizio facevano alzare il sopracciglio a qualche snob».

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