Analfabetismo di ritorno
L’Italia non sa leggere

Sette italiani su dieci non capiscono bene l’italiano. Il 70 per cento della popolazione risulta al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura di un testo di media difficoltà. Soltanto meno di un terzo degli italiani è in grado di dimostrare, attraverso piccoli test linguistici e matematici, di capire effettivamente che cosa legge e di saper compiere un’operazione aritmetica elementare. Persiste, inoltre, un 5 per cento di analfabeti in senso stretto. Negli anni Cinquanta del secolo scorso l’analfabetismo in Italia toccava, addirittura, la quota del 30 per cento: nel Dopoguerra l’espansione senza precedenti dell’istruzione scolastica ha migliorato sensibilmente la situazione. In età adulta, d’altra parte, si deteriorano le competenze faticosamente costruite sui banchi di scuola: leggere, scrivere e anche far di conto.

Lo rileva la ricerca internazionale «Piaac – Programme for the International Assessment of Adult Competencies», un’indagine sui livelli di conoscenza e capacità degli adulti in lettura e comprensione di testi scritti, risoluzione di problemi matematici, conoscenze linguistiche. Dall’inchiesta, che ha interessato un campione di 166 mila adulti, tra i 16 e i 65 anni, risulta, infatti, che all’Italia spetta il primato negativo, in Europa, per il cosiddetto «analfabetismo di ritorno». In tutti i Paesi, per la verità, ci sono masse consistenti di persone sotto il livello minimo di competenze: sono più della metà in Francia, Germania, Stati Uniti, Gran Bretagna, circa il 40 per cento in Olanda, Finlandia, Corea, Giappone. L’analfabetismo di ritorno, quindi, è un fenomeno globale. In Italia ha dimensioni differenti in base alle fasce di età e al territorio di residenza: la quota più imponente si trova nel Sud e nelle Isole. Il fenomeno dell’analfabetismo di ritorno comprende anche lo sviluppo e la mancata diffusione di nuove competenze, come quelle informatiche di base, dalle quali in Italia è esclusa ancora la metà della popolazione adulta. In una società sempre più complessa e globale, la cultura e più in generale la conoscenza della realtà dovrebbero crescere, e non decrescere, per riuscire a garantire una capacità di risposta adeguata ai nuovi problemi.

Del resto, pare che la conoscenza delle strutture grammaticali e sintattiche sia pressoché assente persino tra gli studenti universitari che, per quanto riguarda sia le competenze linguistiche sia le nozioni matematiche, si collocano ai gradini più bassi delle classifiche europee. Sono indiscutibili sia l’abbassamento del livello culturale dei diplomati e dei laureati, sia la flessione del livello culturale medio della classe dirigente. Era questo un tema caro al linguista Tullio De Mauro, scomparso nei giorni scorsi. L’insigne studioso affermava che, secondo la «regola del meno cinque», da adulti, se le conoscenze acquisite a scuola non vengono tenute attive, si regredisce di 5 anni rispetto ai livelli massimi raggiunti in gioventù, mentre, se adeguatamente sostenuti nei processi di formazione, si può continuare ad apprendere, fino a guadagnare, viceversa, almeno 5 anni di alfabetizzazione.

Non bisognerebbe mai dimenticare che la conoscenza della lingua madre è il fondamento per lo studio delle altre discipline scolastiche, così come è alla base della capacità di districarsi nella società e di farsi valere nel mondo del lavoro. Invece, oggi, la lingua italiana subisce una continua e insensata umiliazione da parte della diffusa anglofilia. Persino la lettura è nettamente sacrificata a vantaggio della dipendenza visiva e tecnologica, con conseguenze a livello psichico e cognitivo ancora difficilmente valutabili. Conosciamo male l’italiano, non impariamo bene le lingue straniere, ma abbiamo preso il vizio, molto provinciale, di usare termini come «street food» per le sagre di paese. E di tenere la testa immersa in un mondo di «app».

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