Gli auguri anonimi
dell’era dei «social»

«Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura». Così Leopardi nel «Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere», che tutti abbiamo studiato a scuola. Non potrebbe esserci incipit migliore per l’anno nuovo. Il venditore ambulante di almanacchi confida in un anno nuovo felice. Il «passeggere», il viandante, disilluso, sa che la felicità non è di questo mondo, anche se è un’evidenza inaccettabile per la mentalità comune, che continua a festeggiare il passaggio da un anno all’altro come se fosse portatore di chissà quali novità prodigiose.

Nell’occasione delle feste ci si è sempre scambiati auguri come buon auspicio, anche se, spesso, solo per semplice cortesia o banale convenzione. Una tradizione, che negli ultimi tempi sta vivendo una profonda trasformazione, di pari passo con la «mutazione antropologica» in atto. «L’uomo-tastiera-schermo» della società della rivoluzione digitale – come l’ha battezzato Alessandro Baricco in «The Game» – ha reso i propri auguri sempre più algidi e impersonali. Abbiamo già ricordato come una volta si scrivessero tutti rigorosamente a mano, l’uno diverso dall’altro, su biglietti pure differenti, scelti, accuratamente, nelle cartolerie, che disponevano di una vasta offerta. Cartoline e parole erano studiate, rigorosamente, per quel preciso destinatario: guai a ripetere un’immagine o una frase. Oggi, ricevere una lettera di auguri per posta è, sempre più, un vero e proprio evento. I mittenti di questi residuati, rari e preziosi, possono avere una veneranda età. Chi, colpevolmente più giovane, si ostini a mandarne ancora, subirà il gabbo di non ricevere nessuna risposta, intuendo, così, di essere stato catalogato come un inguaribile tecnofobo e nostalgico. Quasi fosse un «luddista», l’operaio che, nell’Inghilterra della prima Rivoluzione industriale, reagiva, violentemente, contro l’introduzione delle macchine. Clamoroso autolesionismo sociale rischiare di finire accostati a quella storica categoria, per un’innocente lettera di auguri, magari arricchita di qualche verso poetico. I biglietti sono totalmente ignorati, forse perché non si guarda nemmeno la data, pensando che siano una di quelle missive ritardatarie per colpa di un disguido delle Poste, ormai in tutt’altre faccende affaccendate. Finita, da un pezzo, l’era in cui, sui giornali d’inizio anno, si leggeva la notizia delle tonnellate di biglietti augurali distribuiti per le feste.

Non solo. Nell’era dello smartphone nelle tasche di ogni individuo, ci siamo dimenticati che questo onnipresente strumento tecnologico – l’invenzione diffusasi più rapidamente e capillarmente nella storia dell’intera umanità – era nato come telefonino, per chiamate di emergenza quando non si aveva a disposizione un apparecchio fisso. Archeologia. Con quell’aggeggio si compiono le più straordinarie e inaudite operazioni, fuorché quella originaria: parlare al telefono. I fissi sono rimasti sui tavoli degli uffici e nelle case di chi ancora – ahilui – non si è accorto di quanto sia una spesa inutile. Risultato: non si è mai parlato così poco al telefono. Chi chiama per fare gli auguri? Ancor meno di chi scrive biglietti. «L’uomo-tastiera-schermo» trova infinitamente più comodo un bel copia-incolla di auguri standard scovati nel mare magnum del web e spediti d’un lampo – con un clic, l’operazione oggi più abituale – a tutta la lista dei propri contatti. Anche gli auguri personali via WhatsApp sono in calo. Quest’anno, anzi, un nostro caro amico ha pensato bene di scegliere ancora WhatsApp, ma di non scrivere messaggi, né personali né omologati: ha istituito un gruppo dei propri contatti, in cui ci si trovava a leggere le risposte al sodale da parte di tutti gli altri associati alla lista. Scherzi dei «social».

Gli auguri in posta elettronica restano una prassi costante per enti, aziende, associazioni: comprensibilmente identici e anonimi. Assai meno chiaro, però, perché si ricevano, da conoscenti, auguri in mail non personali. Anzi, perché siano inviati a un gruppo costituito chissà come dall’illustre mittente, che ha scelto una via intermedia, evidentemente per risparmiare tempo. Si sa: è denaro. Un testo per ognuno? Impossibile. Uno per tutti? Troppo indifferenziato. Dividiamo i contatti per liste: così, anche in questo caso, ci si trova associati a sconosciuti. Il vantaggio, rispetto al gruppo di WhatsApp, è non sentire le notifiche delle risposte altrui. Insomma, un guazzabuglio, scriverebbe Manzoni, ma senza cuore umano.

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