Salviamo il Po
per difendere l’Italia

Un bellissimo documentario di Ermanno Olmi, girato ormai più di un quarto di secolo fa, «Lungo il fiume», racconta l’importanza del Po per tutto il Paese. Il maestoso fiume, che attraversa la vasta pianura, vivificandola e arricchendola, è interpretato con una metafora religiosa, visto come l’immagine del Signore che, secondo la fede cristiana, attraversa, incompreso e addirittura rifiutato, la storia dell’uomo, beneficandola e salvandola.

La bellezza della natura è alimentata dalle acque che la dissetano, mentre l’uomo può arrecarle danni irreparabili attraverso l’incuria per la Creazione. Una meditazione illuminante. Le cronache degli ultimi anni ci hanno riferito spesso di un fiume Po ridotto a poco più di un rivolo, quando lascia le montagne per aprirsi verso la pianura. Il 17 settembre 2017 la sorgente, a Pian del Re, era addirittura a secco: il senatore Bossi non avrebbe trovato acqua per riempire l’ampolla della sua Lega. Una situazione pericolosa che, per l’abbassamento delle falde acquifere, può portare a gravi problemi di irrigazione.

L’Italia non è ancora del tutto consapevole di quanto la ricchezza della Pianura Padana, dove si genera il 40 per cento del prodotto interno lordo del Paese, sia dovuta alle acque dell’imponente fiume, che la percorre per 650 chilometri dal Monviso all’Adriatico, e dei suoi numerosi affluenti. Lo sviluppo agricolo, idroelettrico, industriale dipende dalla generosa portata del Po, soggetto a innumerevoli prelievi e a devastanti scarichi. I cambiamenti climatici in corso stanno mettendo, ulteriormente e gravemente, in pericolo la maggior fonte di ricchezza, non solo di Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto – un’area di circa venti milioni di abitanti, tra i primissimi motori d’Europa – ma di tutto il Paese. Se il Po si inaridisce, l’Italia intera si impoverisce. Alle pressioni antropiche crescenti e alle sempre più precarie condizioni delle acque, si aggiungono le conseguenze del riscaldamento globale.

Le piogge sono drasticamente cambiate. Non sono più moderate e frequenti nel corso dell’anno, ma sempre più rare e alluvionali. Si passa da lunghi periodi di siccità a piene impressionanti. Lo vediamo anche nella Bergamasca – «Terra che ’l Serio bagna e ’l Brembo inonda» – che, pure, deve le proprie fortune agricole e industriali ai due fiumi che la attraversano. È la sfida, inedita e cruciale per le sorti stesse del pianeta, dei cambiamenti climatici, dovuti alle emissioni di gas serra nell’atmosfera a partire della rivoluzione industriale. Le modificazioni del clima ci sono sempre state, anche in passato, ma avevano cause diverse: fenomeni astronomici, impatti con asteroidi, vulcanismo con effetti su vasta scala, assetti mutevoli della circolazione oceanica. Oggi sappiamo con certezza – perché sono osservati, misurati e simulati dai calcolatori – che questi fattori naturali non sono attivi, mentre la crescita di anidride carbonica e altri gas serra determina l’aumento termico. I prelievi abituali dal Po corrispondono alla sua portata minima. Siamo già in piena crisi idrica, aggravata dalla poca neve arrivata quest’inverno sul versante italiano delle Alpi – sfavorito da particolari condizioni meteorologiche – e dal conseguente basso livello dei grandi laghi del Nord Italia, i principali bacini di alimentazione per il Po. Purtroppo il mondo dell’informazione si occupa dei fiumi della Pianura Padana solo nelle occasioni degli eventi estremi di siccità, oppure quando le alluvioni, rare ma sempre più violente, minacciano esondazioni sui centri abitati. Nel 2000 si arrivò a un passo dall’abbattimento del viadotto di Pontelagoscuro per evitare l’allagamento della città di Ferrara.

Le opere di mitigazione e di adattamento per il Po, nell’era dell’effetto serra, dovrebbero essere continue, coordinate e non limitate alle emergenze: dagli interventi per potenziare gli argini a quelli per razionalizzare l’uso dell’acqua in agricoltura. Dalla salute del grande fiume e di tutto il suo bacino dipende quella, non solo ambientale ma economica, dell’intero Paese. Già nel 1952, all’indomani della storica alluvione del Polesine, l’accademico Giulio De Marchi invitava a considerare «l’intero territorio come entità unica e solidale, che occorre proteggere con il minimo danno complessivo».

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