Un anno fa l’addio a Olmi
L’Italia non lo dimentichi

«Il giorno in cui morirà la civiltà contadina, morirà l’umanità. E allora come facciamo a non preoccuparci di tenere cara questa memoria?». Sono le ultime parole di Ermanno Olmi nel documentario «Albero, nostro», firmato dalla trevigliese Federica Ravera, assistente del grande regista bergamasco scomparso il 7 maggio di un anno fa.

Il documentario era stato concepito, per il quarantesimo de «L’albero degli zoccoli», Palma d’oro a Cannes nel 1978, all’interno di un progetto di iniziative, che, nato a Mornico al Serio, ha compreso Calcinate, Cividate al Piano, Cortenuova, Martinengo, Palosco e Treviglio, i setti comuni della Bassa coinvolti nella lavorazione del film.

Ravera intervista Olmi (lei dice: «Si è autointervistato»), parla con i suoi collaboratori per «L’albero degli zoccoli», incontra gli interpreti, si sofferma sul loro reclutamento tra la gente della campagna, negli stessi paesi dove il film è ambientato, ricostruendo la vita, alla fine dell’Ottocento, in una cascina della Bassa, dove abitavano quattro, cinque famiglie di contadini. Trionfatore a Cannes, in dialetto bergamasco con i sottotitoli, fu poi doppiato per la distribuzione in Italia, come ben documenta Ravera, dagli stessi attori non professionisti.

Nell’incontro alla Fiera dei Librai di Bergamo, l’autrice ha ricordato: «Olmi cercava i volti che più si avvicinavano al suo pensiero. La vedova Runk rappresenta sua nonna Elisabetta, la sua musa. Cercava negli sguardi i personaggi che desiderava. In “Centochiodi” – ha aggiunto per sottolineare la sua meticolosità – ha inquadrato, per un tempo infinito, un filo d’erba, con la stessa cura e attenzione che avrebbe speso per il volto di una persona».

Quando l’anno scorso Olmi è morto, chi scrive stava aspettando il via libera a un’intervista per i quarant’anni dell’«Albero degli zoccoli». Tutte le domande che avremmo voluto porgli ci sono rimaste nel cuore. Nel 1978, nella giuria presieduta dal regista americano Alan J. Pakula, figurava, tra gli altri, l’attrice svedese Liv Ullmann, musa di Ingmar Bergman, nel marzo dell’anno scorso ospite di «Bergamo Film Meeting». Ci aveva rivelato: «L’ho amato, l’ho amato, l’ho amato. Assolutamente fantastico. Nella giuria – ha sottolineato con forza – ho lottato veramente perché fosse premiato con la Palma. Ha avuto successo perché raccontava storie vere di persone reali, di semplici contadini con gli zoccoli. È un film che spiega chi siamo e perché siamo così. È quanto non siamo più capaci di fare. Ancora meno oggi rispetto a quarant’anni fa. Quel film, invece, sapeva esprimerlo».

A Bergamo stabilì, con la prima edizione, il record di giorni di programmazione, ben 113, dopo la memorabile anteprima nazionale, presente anche Olmi, il 20 settembre 1978, in un affollatissimo cinema San Marco. «Questa – aveva detto Olmi – è una serata del tutto particolare, dedicata soprattutto ai “protagonisti”, a tutti coloro che hanno vissuto, e vivono, la realtà della terra bergamasca». Erano in sala anche gli interpreti del film, da Luigi Ornaghi (ol Batistì) a Francesca Moriggi (la moglie), fino al piccolo Antonio Ferrari (ol Tunì).

Il film di Olmi uscì in un periodo politico molto complesso. Mentre in Francia la critica fu tutta positiva, in Italia – come ci aveva rievocato Raffaele De Berti – sorsero polemiche, non sul riconoscimento del valore estetico, concordemente ammesso. Il dibattito fu ideologico. Olmi fu criticato per aver rimosso il conflitto di classe. Alberto Moravia, alludendo a una scena, scrisse: l’unico ribelle è il cavallo, un animale. Durante il comizio socialista, la sola preoccupazione del contadino è quella di raccogliere il marenghino d’oro. Secondo le critiche di sinistra, il film è bello esteticamente, ma colpevolmente improntato a un’immagine idilliaca e falsificata della realtà, considerata conservatrice. Alberto Farassino ribattè in modo intelligente. «L’albero degli zoccoli» è un film sul non mostrato e sul non detto: qui riposa il segreto del suo fascino. Le reticenze non sono dovute a una scelta politica di Olmi, assolutamente, ma estetica e poetica, per ricordare, con sguardo discreto, quel mondo contadino che lui aveva conosciuto, in particolare attraverso i racconti della nonna. Nell’Italia di quegli anni erano già usciti «Novecento» di Bertolucci e «Padre padrone» dei Taviani, che offrivano una visione sociale e politica del mondo contadino. A Bertolucci, pure scomparso l’anno scorso, è stato reso un commosso omaggio alla serata per i David di Donatello. A Olmi no. L’Italia – e Bergamo – non lo dimentichino.

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