Da Bergamo allo Zambia
«La sfida di essere
madre in Africa»

C’era una volta una bambina nata e cresciuta tra gli scaffali della storica edicola di Castel Rozzone. Le sue giornate erano scandite dai rintocchi del campanile, dal profumo del pane fuori casa e dai racconti. Non solo quelli ascoltati ogni giorno tra libri e giornali, che erano parecchi, ma soprattutto quelli che un missionario dal lungo pizzetto bianco amava regalare in parrocchia. Racconti che venivano da lontano, che parlavano di bambini africani sorridenti, colori sgargianti e strade infinite di terra rossa. Quando Stefania era adolescente il sacerdote tornava puntualmente almeno una volta all’anno e narrava le stesse storie di orfani lasciati in strada e del suo sogno grande di accoglierli tutti, di una vita essenziale ma più reale, di un oceano sconfinato e di parchi con animali visti solo nei cartoni animati. Stefania ascoltava senza fiatare e veniva catturata da quel mondo fuori che bussava, e lei quel mondo lì lo voleva vedere davvero.

«Ho iniziato a dire a mia mamma che volevo andare in Africa a 10 anni. Le mie amiche volevano fare lavori bellissimi da grandi, io volevo fare la maestra o la pediatra e andare da quei bambini – rivela emozionata Stefania Lagonigro –. Così è iniziato il mio sogno e oggi, a distanza di poco più di 20 anni, posso dire di averlo in parte realizzato». Classe 1986, una laurea in Psicologia a Bergamo e una serie di valigie riempite e svuotate a ripetizione in diversi angoli di Africa: Stefania Lagonigro è fatta proprio di quei pezzetti di bagaglio lasciati qua e là, ma sempre sotto lo stesso cielo, lontano da casa ma vicino con il cuore. «La prima terra rossa africana che ho calpestato è stata quella della Tanzania, a 19 anni. Ero con un gruppo di coetanee che come me volevano andare a giocare con i bimbi africani, come se i bambini di Castel Rozzone non fossero abbastanza... Insieme a noi una coppia di adulti, una delle più belle che potessi incontrare sul mio percorso – racconta la bergamasca –. Dopo mille peripezie, voli cancellati e borse smarrite, ricordo ancora la sensazione che mi ha rapito una volta uscita dall’aeroporto, quel profumo nuovo che mi è entrato dentro e che ancora oggi mi sembra di sentire. Non so se definirlo mal d’Africa, fatto sta che ancora ne soffro probabilmente».

La prima esperienza di volontariato si rivela così potente da spingere Stefania a trascorrere le sue vacanze a Mbweni, il piccolo paesino alle porte di Dar Es Salaam, dal 2006 al 2009. Dopo la laurea ha deciso poi di fermarsi tre mesi e dopo quei mesi di prova, per due anni. «Era proprio lì che volevo essere ed è lì che sono cresciuta, cercando di imparare lo swahili dai libri di scuola locali, innamorandomi di una cultura contorta che non capirò mai e, perché no, scontrandomi con illusioni e pezzi di realtà che non immaginavo. Ho conosciuto l’Oceano Indiano e trovato quei colori, odori e sapori di cui avevo solo sentito parlare – rivela emozionata Stefania –. Mbweni è stata la mia prima Africa, quella che ha segnato la mia strada e che mi ha fatto capire che potevo continuare a crescere lì, nel continente che mi aveva adottato».

Così, sotto un anacardo, Stefania decide di mettersi davvero in gioco inviando curriculum a tutte le associazioni italiane con progetti in Tanzania. Risponde Iringa, città tra le montagne rocciose a sud, per un posto da cooperante. «A Iringa ho trascorso due anni intensi e ho svolto il mio primo vero lavoro in Africa. Di quel periodo ho ricordi di emozioni fortissime che andavano dall’insicurezza alla soddisfazione profonda, dalla malinconia alla gioia, dalla frustrazione alla motivazione – continua Stefania –. A Iringa mi sentivo al sicuro, ma questa stessa sicurezza mi mise in crisi: non avevo più bene in chiaro cosa volessi, quali priorità avessi per la mia vita. Così decisi di rientrare in Italia per schiarirmi le idee». Una pausa bergamasca durata 5 mesi, per la gioia della famiglia e degli amici, abbastanza per riconfermare la voglia di sentire quel profumo lontano. «E allora sono atterrata a Lusaka, in Zambia. Era il 2015 e quell’odore l’ho risentito proprio lì, appena scesa dall’aereo – ricorda Stefania –. Ho trascorso 5 anni a Kanyama, uno dei quartieri più degradati, e lì ho lavorato tantissimo, incontrando molte persone speciali e perfino l’amore della mia vita, quello che pensavo di non meritare e di non trovare mai. Quello da cui è nata mia figlia Muye, il senso di tutto».

Stefania ora è a Lusaka ed è capo missione di Caritas Repubblica Ceca, dopo aver lavorato per anni per Africa Chiama di Fano. Non sa dire quanto rimarrà, ma sa che è proprio lì che vuole stare ora. «Non mi sento un’eroina né un esempio, sono solo fortunata: per avere genitori che hanno sempre creduto in me e che mi hanno lasciata andare, fidandosi del mio istinto; per avere un lavoro che amo e che mi sono costruita a fatica, senza master universitari ma con l’esperienza, nel posto che ho scelto e che mi ha dato una famiglia – rivela Stefania –. Lo Zambia è un Paese unico, cristiano per costituzione ma aperto agli altri. Ospita rifugiati da decenni e cerca di lasciarti lavorare per la sua gente. A volte lo amo, altre lo odio. Quando sono in Italia non vedo l’ora di rientrare, ma ogni tanto vorrei scappare per la precarietà di un Paese ancora debole e corrotto, scappare da chi ogni giorno mi ricorda che sono bianca e che conta i soldi che hai nel portafoglio anziché apprezzarti per quello che sei. Si può pensare che vivere qui sia facile, ma non lo è. Soprattutto quando diventi mamma: cresci tua figlia come ti hanno insegnato, e senza aiuti, in un Paese che cresce i suoi figli come non avresti mai pensato».

Eppure Stefania non si pente mai del percorso fatto e di aver preso questa strada così lontana da casa nei modi, nelle abitudini, nello stile. E anche se le mancano tanto le passeggiate e i giri in bicicletta a Castel Rozzone, le attività culturali che in Zambia non esistono, la mozzarella, il pane fresco, le tradizioni di paese come la festa patronale e la benedizione delle uova, la sua nonna, la famiglia, le amiche… non cambierebbe la sua casa africana per nessun altro profumo al mondo.

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