Alzano un anno dopo: «Quella lunga notte
aspettando gli esiti dei primi tamponi»

Fu il primario Fusini, a chiederli, da casa: anche lui malato. Dal «San Matteo» gli esiti, il 23 febbraio: positivi. Uno dei due pazienti morì poco dopo.

Il dottor Patrizio Fusini domenica 23 febbraio 2020 è a casa, a Legnano nel Milanese, e non sta bene. Da metà mese ha sintomi influenzali anche se ha fatto il vaccino. È strano. Passerà. Ma non passa. Così venerdì 21 decide di prendersi un giorno, resta a casa, in contatto col reparto che guida ad Alzano, dove non sta succedendo nulla di particolarmente allarmante, qualche polmonite, ma nessuna grave, e poi è stagione.

È il giorno in cui scoppia Codogno e lui pensa: «Vedi che la Cina non è così lontana». Neanche 24 ore ed è il primo pomeriggio di sabato 22 quando si capisce com’è vicina. Lo chiama un medico del suo staff, il dottor Giuseppe Bertulezzi: «Sono arrivate quattro polmoniti interstiziali». In un giorno: sono troppe. «Anche per il periodo, troppe. Ci diciamo che c’è qualcosa che non va, non torna. Wuhan, Codogno... Chiedo i tamponi sui due pazienti più gravi» racconta il primario della Medicina dell’ospedale di Alzano, il primo colpito, il primo travolto.

Fanno i tamponi ai due più gravi dei quattro pazienti arrivati quel sabato: naso e orofaringeo, poi li spediscono a Pavia, ai laboratori del «San Matteo» che due notti prima avevano processato quello del «paziente 1». E poi c’è da aspettare, nelle corsie dove non arriva il fiato deve passare la nottata. Bertulezzi smonta e monta di turno il dottor Fabrizio Querci. Li vede lui per primo gli esiti, mentre la notizia scoppia sull’ospedale con l’accelerazione esponenziale di un’atomica. I due pazienti, due uomini anziani di Nembro e Villa di Serio, sono i nostri pazienti 1 e 2: con loro il virus sconosciuto entra ufficialmente nella storia di Bergamo.

Mentre il suo ospedale precipita nel caos, il primario è in ospedale, anche lui, ma in un altro. È a Legnano, perché sta male e va a farsi vedere. «È la mia caposala, Paola Barbieri, a telefonarmi da Alzano, domenica in tarda mattinata, quasi mezzogiorno – ricorda –. Nemmeno lei quella domenica era di turno, l’avevano avvisata le sue infermiere. Cosa penso?». Pensa: «Ci siamo». Poi la radiografia gli fotografa una polmonite, il collega di Legnano gli dice che lo manda a casa perché è appunto solo una polmonite. «Io gli dico che forse meglio fare un tampone. A me e a un paziente di Legnano che avevo ricoverato qualche settimana prima ad Alzano, che non guariva».

Positivi, tutti due. Non tornerà al «Pesenti Fenaroli» che ad aprile, quando ormai l’onda si sta ritraendo e i suoi hanno curato, tentato di curare e purtroppo visto morire decine, centinaia di persone. Se la vede bruttina anche il primario, lui come migliaia, curato con farmaci in base a un protocollo che si imbastiva di ora in ora. «Non ho mai avuto bisogno dell’ossigeno, ma alla fine dopo settimane quando ormai stavo meglio, ho scoperto di aver avuto una piccola embolia polmonare». Quella che ha strappato in un soffio dalle mani dei medici tanti malati, prima che nel protocollo entrasse l’eparina.

«Sapevo di quel che stava succedendo al Pesenti-Fenaroli perché mi telefonavano i colleghi – ricorda Fusini –, ma solo quando li ho rivisti, quando ho rivisto le infermiere e i loro volti stravolti, dalla stanchezza, dalla tensione, ho veramente capito cos’era accaduto da quella domenica».

Quella domenica il dottor Querci guida il reparto di Medicina dove le quattro polmoniti erano arrivate dal Pronto soccorso. «Ho ripensato tutto quest’anno a quei giorni, alle settimane e ai mesi precedenti – racconta ancora il primario Fusini –. Pensato e guardato e riguardato le cartelle, i referti. Erano arrivati sì pazienti con polmoniti, anziani e con una situazione di salute compromessa. Tutti così, non si osservavano numeri o situazioni o gravità che avrebbero potuto allarmare rispetto agli anni precedenti. Nessun paziente particolarmente grave, nessuno finito in rianimazione. E nessun decesso. Tutti alla fine se ne erano tornati a casa con le loro gambe. Uno solo era dovuto ritornare perché non guariva, uno dei quattro che il sabato 22 febbraio dell’anno scorso erano stati trasportati dal Pronto soccorso al reparto. Uno di loro». Significa che le polmoniti precedenti erano anch’esse causate dal Covid ma erano guarite senza allarmare? «Non lo possiamo sapere. I malati erano guariti». Mentre dal 23 febbraio non guarivano più, molti non sono guariti.

«Immediatamente dopo la notizia dal San Matteo di Pavia – ripercorre Fusini –, il dottor Querci chiede il tampone su tutti i pazienti della Medicina e il trasferimento al “Papa Giovanni” per i due risultati positivi». Uno dei due è Ernesto Ravelli di Villa di Serio, ha 83 anni, arriva in terapia intensiva a Bergamo, gli attaccano di tutto, non ce la fa. Arrivato il 23 febbraio di un anno fa, il giorno stesso il virus aveva già la sua prima vittima bergamasca

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