Attraversano l’Atlantico in barca a vela
Scoprono il virus ai Caraibi dopo un mese

L’avventura in barca a vela della bergamasca Elena Manighetti e del marito Ryan. Isolati per oltre un mese, all’arrivo hanno scoperto gli effetti dell’epidemia.

Impegnati per quasi un mese nella loro prima traversata transatlantica in barca a vela, la bergamasca Elena Manighetti e suo marito Ryan hanno saputo della gravità dell’epidemia da coronavirus solo al loro arrivo ai Caraibi. Una vicenda che li ha visti comparire sui principali giornali internazionali, dalla BBC al Daily Mail e che, in alcuni casi, hanno anche travisato i fatti.

La storia di Elena, originaria di Brembate Sopra e Ryan l’avevamo raccontata nella rubrica Bergamo Senza Confini. Due giovani che avevano scelto di lasciare un impiego sicuro, comprare una piccola barca a vela con i risparmi e girare il mondo lavorando a distanza, anche come video blogger, per raccontare la loro esperienza. Era il 2017 e da allora non hanno mai smesso di navigare, trovando anche il tempo di sposarsi.

«Impossibile tornare»

«Quando abbiamo lasciato Lanzarote, dalle notizie che circolavano sembrava che l’epidemia in Cina fosse sotto controllo, con casi in diminuzione - racconta Elena dall’isola di Bequia nei Caraibi – Per affrontare la traversata, che sarebbe durata tra i 24 e i 30 giorni, avevamo chiesto alle nostre famiglie di non mandarci brutte notizie. Eravamo due persone su una barca vela in mezzo all’Atlantico e dovevamo restare concentrati sulla traversata per motivi di sicurezza. Inoltre, una volta che la barca entra negli Alisei, è praticamente impossibile tornare indietro, quindi ricevere brutte notizie ci avrebbe solamente preoccupato e distratto. Così siamo partiti, come avevamo programmato da ormai sei mesi, a bordo della nostra piccola e modesta barca a vela Skua, un Tayana 37, lunga 11 metri, del 1976».

Un viaggio di tremila miglia nautiche (5.500km) di oceano, che si affrontano spinti dai venti Alisei, che soffiano da est a ovest senza tregua attraverso l’Atlantico. «L’intenzione era di sbarcare a Guadalupa, un’isola dei Caraibi che fa parte dei territori d’oltre mare della Francia continua Elena -. Il nostro unico mezzo di comunicazione con il mondo era un dispositivo satellitare che ci permetteva di scambiare messaggi di 160 caratteri alla volta, come i vecchi SMS, con alcuni amici e parenti. Non avevamo internet e la radio in mezzo all’oceano non prendeva. Sapendo che non volevamo brutte notizie, amici e parenti non ci hanno detto quanto grave fosse diventata la situazione mondiale, né tantomeno quanto stesse soffrendo la mia città. Scoprirlo è stato uno choc e il pensiero è andato subito alle nostre famiglie che, fortunatamente, abbiamo trovato in salute».

Lo stop all’ingresso

Diverse isole, come quella di Guadalupa, avevano già chiuso gli ingressi e, a Bequia, Elena come cittadina italiana non era la benvenuta. «Vedendo il mio passaporto, l’ufficiale ha rifiutato di farci entrare nel Paese - spiega Elena -. Ryan però non ha mollato, dimostrando che eravamo in oceano, praticamente in quarantena, da ben 25 giorni e che da mesi non toccavamo suolo italiano. Armato della nostra traccia GPS e delle ricevute dei vari porti in cui siamo stati negli ultimi mesi, ha ritentato il check-in e finalmente ci hanno lasciato approdare. Qui la situazione è completamente diversa. Ci sono solo 12 casi di Covid-19 in questo paese e i negozi sono aperti. Alcuni bar e le attività di street food sono ancora aperti. Nessuno indossa mascherine e il disinfettante per le mani non è più reperibile. È davvero surreale essere qui, su un’isola caraibica, e leggere le tristissime notizie dal mondo».

«Sono cresciuta a Brembate di Sopra, ho frequentato il liceo Falcone e come tutte le ragazzine ho fatto “le vasche” in via XX insieme agli amici. Leggere della mia cara provincia natia del mio paese e della mia città sui media online mi ha sconvolta. Mai avrei immaginato che tutto questo potesse succedere».

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