Bella e sportiva, affronta e supera
i tabù della sua «disabilità invisibile»

A 27 anni la forza di costruirsi una vita «normale» nonostante la malattia cronica all’intestino.

C’è chi nasconde le cicatrici e chi invece è capace di indossarle come se fossero finissimi gioielli. Ci vuole molto coraggio per rimarginare le ferite e andare avanti: non è da tutti, si può esserne orgogliosi. Così Laura Maltese di Bergamo, 27 anni, nonostante sia costretta a combattere da quando ne aveva 16 con una grave malattia cronica dell’intestino e abbia dovuto subire operazioni invasive per curarla, non ha perso il suo sorriso e ha accettato perfino di fare da modella per il progetto internazionale «Invisible body disabilities».

«Non c’è niente di più bello di una persona che rinasce – diceva la grande attrice Anna Magnani – quando si rialza dopo una caduta e torna più forte e bella di prima, con la voglia di stravolgere il mondo anche solo con un sorriso». Le «disabilità invisibili» di cui dà conto questo progetto non lasciano segni evidenti sul corpo, ma condizionano pesantemente la vita delle persone: Chiara De Marchi, fotografa professionista e mamma, anche lei affetta da una malattia cronica, ha deciso di raccogliere immagini e storie e di portarle all’attenzione di tutti per creare una maggiore sensibilità e attenzione, superare pregiudizi e tabù (per saperne di più basta consultare il sito www.invisiblebodydisabilities.org). Accogliendo il suo invito anche Laura ha accettato di uscire allo scoperto: «Ho trovato un grande appoggio nel sostegno di altri malati e nelle attività dell’associazione Amici e per questo mi fa piacere potere a mia volta aiutare qualcun altro, donandogli un po’ di speranza e di energia».

L’odissea alle superiori

Quando è incominciata la sua personale odissea, Laura frequentava il terzo anno di liceo psicopedagogico: «Non stavo mai ferma, avevo una vita piena. Praticavo nuoto a livello agonistico, mi allenavo due volte ogni giorno: al mattino alle 5,30 prima di andare a scuola ero già in vasca, e poi tornavo in piscina la sera. Ero abituata così, avevo incominciato a cinque anni e non mi pesava, consideravo la mia squadra come un’estensione della mia famiglia. Gareggiavo con la nazionale e sognavo di partecipare alle Olimpiadi di Pechino del 2008».

A un certo punto, però, in modo imprevedibile, la sua vita ha preso una piega diversa: «Ho incominciato a dimagrire e a stare male. I medici non sono arrivati subito a una diagnosi precisa: dicevano che si trattava di gastroenterite. I sintomi però erano forti e persistevano. Nel giro di pochi mesi mi è capitato di stare così male da svenire ogni due ore. A quel punto mi hanno ricoverato all’ospedale di Bergamo, dove mi hanno sottoposto a tutti gli esami del caso, e finalmente hanno capito che si trattava di una malattia cronica».

Dalle gare al bordo vasca

È stato un fulmine a ciel sereno ma Laura ha cercato di continuare la sua vita come se niente fosse: «Ho tentato di proseguire anche con il nuoto, mi piaceva tanto, purtroppo però la malattia si è aggravata e a un certo punto i miei genitori mi hanno imposto di fermarmi. Ho dovuto lasciare l’agonismo ma non il mondo del nuoto: sono diventata istruttrice e ho insegnato ai bambini per molti anni, fino alla fine dell’università».

Nel frattempo Laura ha concentrato tutte le sue forze nello studio: «La malattia mi ha tolto tanto, ma ho tentato di compensare queste mancanze dedicandomi ad attività che mi appassionassero comunque, anche se in campo intellettuale anziché fisico». Il percorso è stato molto accidentato, a causa delle terapie e delle ricadute: «Come accade spesso in casi simili al mio, ho iniziato le cure - seguita da un gastroenterologo dell’ospedale di Seriate - con alcuni cicli di cortisone ma non appena le dosi venivano abbassate i sintomi si ripresentavano. Un semplice virus poteva scatenare temibili ricadute e costringermi a un ricovero in ospedale. Nel frattempo, per di più, dovevo affrontare molti effetti collaterali, come il gonfiore al viso e in tutto il corpo, che mi faceva sentire a disagio. Quando questo farmaco ha smesso di funzionare ho seguito una lunga trafila sperimentandone altri, finché i medici non ne hanno trovato uno, che si somministra in infusione, che mi ha procurato diversi anni di benessere: mi ero quasi dimenticata di essere malata. Così sono arrivata senza troppi scossoni fino alla maturità».

Il sostegno di famiglia e amiche

Non sono stati comunque anni facili. «Mi ritengo molto fortunata, perché ho avuto accanto persone splendide: la mia famiglia prima di tutto e poi un gruppo di amiche, alle quali sono rimasta poi legata, che cercavano di sostenermi in ogni modo. Con loro mi sentivo libera di raccontare o di tacere, sapevo che mi accettavano com’ero, in qualunque caso. Non è andata sempre altrettanto bene con i professori: non tutti capivano, ma alcuni di loro sono diventati per me punti di riferimento importantissimi». Laura ha cercato di compiere le esperienze di qualunque altra ragazza della sua età: «Non ho voluto perdere tempo a compiangermi e a sentirmi diversa dagli altri, ho sempre cercato strategie alternative per non privarmi di nulla. Non ho saltato le gite, uscivo la sera, a volte anche se non ero in perfetta forma. Non mi si addice il ruolo di malata, ho sempre cercato di sentirmi qualcos’altro. Sono riuscita ad attivare un meccanismo di resilienza».

Dopo il liceo ha frequentato la facoltà di psicologia a Milano: «Per un anno e sei mesi è andato tutto benissimo, mi sentivo davvero “normale” ed era bellissimo. Mi sottoponevo sempre a controlli periodici ma con serenità perché ero in remissione. Poi purtroppo ho preso un altro virus che si è trasformato in una ricaduta. I sintomi hanno incominciato a peggiorare, la malattia si è risvegliata. Per un po’ sono riuscita a tenerla a bada con farmaci biologici che mi procuravano qualche mese di benessere prima di diventare inefficaci. Così sono riuscita ad arrivare alla conclusione del corso di laurea triennale restando nei tempi».

L’università in salita

Ottenere la laurea magistrale, invece, è stato un percorso tutto in salita: «L’ultima ricaduta è stata la più pesante, mi hanno detto che non c’erano altri farmaci a mia disposizione, perché ormai li avevo provati tutti. Dagli esami, per di più, il colon risultava talmente deteriorato da sembrare un organo morto. Così, dall’oggi al domani, mi sono trovata in lista per un intervento di resezione dell’intestino. Era la fine del 2015 ed è stato il momento più difficile: sapevo che questa possibilità rientrava nel percorso clinico dei pazienti con rettocolite, ma l’avevo sempre considerata come un’ipotesi remota - solo per i casi estremi - che non mi avrebbe mai riguardato. Purtroppo, però, non è stato così. È stata una bella prova di vita e se sono riuscita anche in questo caso a reagire in modo positivo, il merito è stato delle persone che avevo accanto. Mia sorella stava preparando il suo matrimonio e io insistevo per accompagnarla a provare gli abiti. A un certo punto abbiamo dovuto sospendere tutto, perché le mie condizioni di salute erano molto precarie e lei ha rimandato gli appuntamenti dopo l’operazione. I medici sono riusciti a completare il protocollo chirurgico in due interventi anziché nei tre previsti: nel primo mi hanno praticato una stomia, nel secondo, otto mesi dopo, hanno completato la ricanalizzazione».

La stomia

Le operazioni hanno portato un corredo di sollievo non privo di conseguenze: «I medici ti spingono a farle sostenendo che alla fine si guarisce. In realtà, per la mia esperienza personale, non è proprio così anche se c’è stato fin dal primo intervento un significativo miglioramento. È complicato, comunque, convivere con la stomia, bisogna essere prudenti e previdenti, prevenire possibili incidenti, pensare all’effetto che fa il sacchetto sotto i vestiti. A un certo punto tra il primo e il secondo intervento ero stanca, rivolevo il mio corpo. Ora sono trascorsi due anni dall’ultimo intervento, ho ritrovato un equilibrio, ma la mia vita continua a non essere “normale” così come la intende il senso comune. Di sicuro è meglio di prima».

I progetti futuri

Laura ha raggiunto anche l’obiettivo della laurea magistrale, ha svolto un anno di tirocinio all’istituto nazionale neurologico Besta di Milano: «Ai colleghi non ho detto nulla del mio passato, perché desidero essere valutata per ciò che sono, e non in base alla mia malattia». Intanto ha dedicato molto tempo anche alle attività dell’associazione Amici (associazione nazionale per le malattie infiammatorie croniche dell’intestino): «Ho incominciato negli anni dell’università, è un supporto prezioso. Ora svolgo attività di ricerca psicologica sulla malattia cronica, mi occupo in particolare del passaggio dal periodo pediatrico a quello adulto, una transizione complessa che ho sperimentato sulla mia pelle. Partecipo anche al Summer camp che Amici organizza per bambini e ragazzi. Pensavo di poter donare loro la mia esperienza per sostenerli nel loro percorso, alla fine però anch’io ho imparato molto da loro, in particolare dai più piccoli che posano uno sguardo limpido sulla realtà e sanno vivere il presente con intensità e senza paura. Poter offrire il mio contributo e aiutare altri riempie la mia vita di senso. Nel futuro vedo un orizzonte sereno, una famiglia, tanti nuovi traguardi. Finalmente dopo l’ultimo intervento ho recuperato la capacità di credere nel futuro e di programmare attività a lungo termine: a gennaio, per esempio, partirò con il mio fidanzato per un viaggio, andremo a Fuerteventura a fare surf. Era un sogno che coltivavo da tempo. Una malattia cronica non è la fine della vita, ma può essere un punto di partenza per molti nuovi inizi, a patto di riuscire a prenderla nel modo giusto».

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