«Fase 2, impatto basso sui contagi»
Locatelli: sull’immunità si sa ancora poco

Franco Locatelli, bergamasco, direttore del Consiglio superiore di Sanità: «Visitare l’ospedale da campo una delle emozioni più grandi della mia vita. La sfida di adesso: tenere i 3.600 posti letto in più di terapia intensiva creati in pochi giorni».

«Il primo caffè al bar dopo la riapertura? No, non sono ancora riuscito ad andare in un locale pubblico. Stamattina (lunedì, ndr) sono uscito di casa e sono venuto direttamente qui a lavorare», confida Franco Locatelli, direttore del Consiglio superiore di Sanità nonché direttore del Dipartimento di Onco-ematologia e Terapia cellulare e genica dell’ospedale Bambin Gesù di Roma, bergamasco (è di Costa Volpino).

Professore, si può già valutare l’effetto della riapertura del 4 maggio sulla curva dei contagio o è troppo presto?

«Qualcosa si riesce già a valutare, tenendo conto che sostanzialmente il tempo di incubazione del Sars-CoV 2 è tra i 5 e i 7 giorni. Per quanto riguarda l’apertura “allargata” in corso da stamattina (ieri, ndr), dovremo invece aspettare gli ultimi giorni di maggio o, meglio ancora, l’inizio di giugno».

E quali sono i primi risultati?

«La chiave di lettura è che l’impatto è al momento non negativo su quello che è l’indice di contagiosità attualizzato (Rt, ndr). Tutte le regioni, fuorché tre, hanno avuto un impatto basso. Un livello un po’ più di attenzione è per Lombardia, Umbria e Molise».

E la Lombardia?

«La Lombardia sul bollettino di ieri (domenica, ndr) è ancora l’unica regione che ha i numeri di nuovi contagiati a tre cifre. Anche il Piemonte, fortunatamente, è sceso a due».

Questi nuovi contagi che nella nostra regione restano a tre cifre fanno parte della fisiologicità della curva o hanno a che fare anche con la riapertura del 4 maggio?

«Nella curva epidemica la discesa è più graduale rispetto alla salita. Le misure di lockdown hanno funzionato dappertutto, ma ovviamente c’è da considerare che l’area lombarda partiva da numeri elevati e ha una certa densità di popolazione».

Il presidente del Consiglio Conte dice che ha riaperto contro il parere degli esperti e che se fosse stato per voi si sarebbe aperto solo a rischio contagio zero, mentre si deve tener conto anche della tenuta del tessuto sociale ed economico. Vi sentite sconfessati?

«Personalmente no, e credo nessuno di noi. Da parte nostra sono state date indicazioni di tipo tecnico e scientifico. Il presidente Conte è decisore politico e ha necessità di contemperare la tutela della salute, che è evidentemente prioritaria, con la ripresa di determinate attività economiche e produttive».

Che dice della tendenza di scambiare i test sierologici per patentini di immunità?

«La determinazione degli anticorpi non permette di dire se un soggetto è immune, e cioè non ti dà il famoso patentino di immunità. E poi bisogna anche capire quanto dura questa immunità. È un virus nuovo, neanche 5 mesi fa non sapevamo della sua esistenza. Abbiamo due modelli di coronavirus, completamente differenti. Quello che ha provocato la Sars dà una protezione che dura in maniera sostenuta nel tempo. Il 20% dei raffreddori che noi abbiamo è invece provocato da altri ceppi di coronavirus e in questi casi la nostra immunità non dura per tanto tempo. Questa informazione sarà cruciale rispetto alle strategie vaccinali».

E a vaccino, appunto, come siamo messi?

«Proprio oggi (lunedì, ndr) è uscita la notizia che in alcuni volontari sani c’è una produzione di anticorpi. Però, a voler essere intellettualmente onesti, non possiamo nasconderci che non possono essere accorciati in modo estremo alcuni passaggi ineludibili, tipo quelli riferiti alla sicurezza e alla dimostrazione di efficacia. Anche a voler essere al massimo dell’ottimismo, credo che se riuscissimo ad avere un vaccino per l’inizio dell’anno prossimo, potrebbe essere un grande successo».

Il Covid-19 ci ha colto impreparati? La medicina di base, che doveva fare da filtro per gli ospedali, è stata mandata allo sbaraglio, senza nemmeno mascherine e guanti.

«Il presupposto è che i medici, ma anche il personale sanitario – perché ci dimentichiamo troppo spesso degli infermieri–, è stato quello che merita maggior plauso e la maggior gratitudine. Spero che questo Paese, che non brilla per memoria storica, non si dimenticherà di quello che è stato fatto dalla classe sanitaria. Anche con vite perse. Detto questo, è chiaro che una situazione come quella che abbiamo vissuto forse offre anche lo spunto per ripensare un po’ a quella che è la struttura del nostro sistema sanitario nazionale. Per rimettere ancora di più al centro dell’attenzione la medicina territoriale. Non a caso il ministro della Salute Speranza ha identificato le risorse per gli infermieri di territorio, che possano gestire i pazienti che hanno bisogno di adeguata assistenza, ma non necessitano d ospedalizzazione. C’è un piano per 8 infermieri di territorio ogni 50 mila abitanti».

L’Italia peggio degli altri Paesi?

«Se uno guarda i numeri di mortalità rispetto agli infetti, direi che l’Italia ha avuto un numero di eventi tragicamente finiti male inferiore a quelli di altri paesi europei. Non dimentichiamoci che abbiamo svolto il ruolo di apripista. Gli altri Paesi hanno potuto trarre insegnamento da quello che è successo in Italia e in molti casi hanno preso modelli lavorati in Italia».

Non c’erano posti sufficienti nelle Terapie intensive.

«Quando è partita l’ondata in Italia c’erano all’incirca 5.500 posti. Numero che, per una serie di scelte fatte nel corso degli anni di minori investimenti, se non di tagli, aveva subito una contrazione importante. Il Paese ha avuto la capacità formidabile di crearne 3.600. Adesso la grande sfida è che i 3.600 posti letto non scompaiano e diventino posti in più. I soldi destinati nelle varie fasi all’ambito sanitario in pochi mesi equivalgono al budget di molti anni».

Doverose le inchieste della magistratura?

«Mi limito a dire che chi sarà chiamato a dare interpretazioni e valutazioni non deve mai dimenticare che era un fenomeno completamente sconosciuto».

Lei è solito abbracciare gli amici per salutarli. In tempi di distanziamelo sociale come fa?

«Mi è costato. Conto però che il venir meno della fisicità sia transitorio».

L’imitazione di Crozza come l’ha vissuta?

«Mi ha fatto morire dal ridere, anche perché non amo le persone che si prendono troppo sul serio».

Lei è bergamasco, originario di Costa Volpino, e tifosissimo dell’Atalanta. Il Covid è entrato a gamba tesa sulla stagione più esaltante.

«L’ultimo momento forse di serenità è stato il ritorno di Valencia, per quanto la partita sia stata giocata a porte chiuse. Mi sarebbe piaciuto vedere come ce la saremmo giocata in Champions. Ma magari non è detto che si ripeta nelle prossime stagioni».

Ha avuto modo di tornare a Bergamo?

«Una toccata e fuga col sottosegretario Zampa. Sono andato all’ospedale da campo Ana, costruito da alpini e dai volontari. è stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita. Tornare a vedere Bergamo col cuore ferito da un lato e dall’altra parte con l’orgoglio di essere bergamasco. Hanno fatto un miracolo per cercare di dare risposte a chi aveva bisogno, ho incontrato tante persone fantastiche. Per me era importante, per il ruolo istituzionale che ricopro, dare il segnale che lo Stato c’è».

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