Giornata della Memoria a Bergamo
Dalla Montelungo a Mauthausen

L’ex caserma fu un campo di transito per molti detenuti politici deportati poi al campo di Mauthausen su due convogli partiti tra marzo e aprile del 1944. La storia rivive in uno spettacolo teatrale.

L’amministrazione comunale di Bergamo, in collaborazione con Isrec, Aned Bergamo, e Biblioteca «Di Vittorio» Cgil Bergamo, insieme a Proteo Fare Sapere, tra le tante iniziative per ricordare il Giorno della Memoria (cliccare qui per scoprirle) ha scelto, quest’anno, uno spettacolo di teatro civico «capace di una narrazione profonda e documentata, nel tentativo di ricostruire un episodio poco noto della storia bergamasca». La ex Caserma Montelungo, recentemente oggetto di un importante progetto di riqualificazione urbana e che diventerà a breve campo universitario, è stato un campo di transito per molti detenuti politici che da qui furono internati al campo di Mauthausen, a seguito di due convogli partiti dalla stazione di Bergamo tra marzo e aprile 1944. Lo spettacolo si intitola «Matilde e il tram per San Vittore», scritto e diretto da Renato Sarti e interpretato da Maddalena Crippa, Marta Marangoni e Rossana Mola, musiche di Carlo Boccadoro, produzione Teatro della Cooperativa, con il sostegno di Aned. Lo spettacolo andrà in scena lunedì 28 al Teatro Sociale alle ore 21 (ingresso gratuito fino a esaurimento posti; non si accettano prenotazioni: l’assegnazione dei posti in platea avverrà presso la biglietteria del teatro dalle 19,30 del giorno dello spettacolo).

Sarti, è nota la sua passione per la storia, soprattutto quella della Seconda guerra mondiale, nasce da lì il suo interesse per il libro di Giuseppe Valota «Dalla fabbrica ai lager»?

«Diciamo che l’interesse per la storia è un interesse un po’ più vasto: vorrei capire se attraverso il teatro si riesce, in questo nostro benedetto Paese, a fare in modo che una delle componenti fondamentali del vivere civile, dello stare insieme possa essere la storia e il ricordo delle grandi tragedie. La Seconda guerra mondiale è naturalmente quella che ci è più vicina. Vorrei capire se possiamo migliorare un po’ questo Paese poco incline ad avere un senso della collettività, e portato a rimuovere la memoria».

Il libro di Valota, in fatto di memoria, ci ricorda qualcosa…

«È un testo straordinario. È il secondo che scrive sul tema della deportazione, il primo si intitolava “Streikertransport” (Trasporto scioperanti) e nasceva dalle testimonianze degli operai, tecnici, ingegneri che furono deportati dopo i grandi scioperi, soprattutto quelli del ’44/’45. Questo secondo libro parla invece delle deportazioni attraverso gli occhi delle donne che rimangono a casa, le figlie, le sorelle le mogli e le madri».

Una sorta di ribaltamento di prospettiva, quindi.

«La testimonianza delle donne rispetto a questa immane tragedia ha sempre qualcosa di particolare, di più intimo, più legato alla natura, ai sentimenti».

Contestualizziamo il momento storico in cui ci troviamo.

«Siamo nel marzo del 1943, quando iniziano i primi grandi scioperi. Soprattutto alla Fiat. Leggenda vuole che un camionista di Torino arrivato a Milano abbia portato la notizia degli scioperi incitando anche gli operai lombardi. Di fatto, il primo grande sciopero viene effettuato dalle donne del reparto bulloneria della Falck. Su 430 operai, 400 sono donne che, a un certo punto, decidono di incrociare le braccia, e cacciare le camicie nere che volevano costringerle a tornare al lavoro. Dopo pochi giorni lo sciopero si propaga anche agli altri reparti della Falck e poi alla Magneti Marelli, alla Pirelli, alla Breda ecc. A fine marzo la maggior parte delle fabbriche del Nord Italia è in sciopero. E questa sarà una delle cause principali della caduta di Mussolini. Però le conseguenze più tragiche si avranno con lo sciopero del dicembre 1943, quando si era già sotto il giogo nazista. Per un po’ i tedeschi sopportano, a loro non interessa se sei fascista o antifascista, l’importante è che lavori; poi invece useranno maniere molto più pesanti dopo gli scioperi del marzo 1944».

È a questo punto che iniziano le deportazioni.

«Esatto: centinaia di persone, milanesi, lombardi, molti piemontesi, vengono internati nella caserma Umberto I di Bergamo per poi essere avviati ai campi di concentramento».

Da Milano quindi vengono prima portati a Bergamo.

«Sì, perché non si sapeva dove altrimenti mettere tutta quella massa di gente, parliamo di centinaia di persone. Nello spettacolo questo serve a ribadire il ruolo centrale delle fabbriche, che sono state il cuore pulsante della Resistenza; e poi il ruolo che ha giocato Bergamo. Lo spettacolo racconta, in particolare, il “trasporto 34”, del 16 marzo 1944, partito appunto da Bergamo».

La Caserma Umberto I, poi diventata Caserma Montelungo e dopo lunghi anni di abbandono sarà una sede universitaria. Così come il Cinema Broletto di Milano, nei cui camerini venivano torturati i partigiani e nel dopoguerra, è diventato il Piccolo Teatro: testimoniano una sorta di riscatto da quel loro passato, come se attraverso la cultura si potesse cancellare.

«Il termine più esatto è quello che ha trovato Moni Ovadia secondo il quale, attraverso l’arte, la poesia, la cultura, la musica, lo stare insieme si cerca di ”bonificare” tutte quelle sofferenze e quel dolore di cui sono impregnate le mura di quei luoghi».

Torniamo al racconto.

«Nel momento in cui queste persone vengono trascinate dalla caserma e vanno verso la stazione ferroviaria, avviene una serie di episodi estremamente importanti, di solidarietà da parte dei cittadini: al passare di questa fiumana di gente, uomini sporchi, sballottati, feriti, la cittadinanza si rende conto della gravità di quello che sta succedendo e velocissimamente, con le tessere annonarie tanti si recano all’interno dei negozi e acquistano un po’ di pane, salame o altri generi e li gettano all’interno del corteo che era tenuto in fila dai militari. Questo eroismo dei bergamaschi è importante perché in questi momenti anche solo un saluto, una carezza, anche solo “una carota” - come ha detto Liliana Segre - ti riscaldano il cuore, ti fanno sapere che ci sono persone che non cedono alla dittatura, al fascismo».

Tutto questo come diventa uno spettacolo teatrale?

«In realtà, nella vita, drammaturghi lo siamo un po’ tutti, credo che basti andare, come faceva Goldoni del resto, in un tribunale e ci si rende conto di quanta ricchezza anche tragica la vita offre quotidianamente».

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