Risparmiati dal lockdown, ma vuoti
Affari ridotti all’osso per i negozi aperti

Bergamo, in centro i negozi rimasti in attività sono in difficoltà. C’è chi ha rivisto gli orari e chi consegna a domicilio.

Graziati dal lockdown, ma vuoti: è il paradosso che stanno vivendo tantissimi negozi, finiti tra gli allegati dell’ultimo Dpcm e quindi risparmiati dalla chiusura forzata. Dalle cartolibrerie ai parrucchieri, dai fioristi alla biancheria intima, dai giocattoli alle profumerie, dagli articoli sportivi alle lavanderie. Insomma, un bell’elenco, più lungo di quello del lockdown di primavera, peccato però che, al momento di compilare l’autocertificazione sulla porta di casa, la gente non veda rientrare l’acquisto di un paio di mutande o di un profumo né tra i motivi di salute e lavoro, né tantomeno di «comprovata necessità».

Orari ridotti e consegne

«Un lampadario non è un’esigenza primaria, le persone non rischiano di uscire e prendersi la multa, lo comprano a gennaio – spiega Gisella Sorti di Puntoluce –. Se non entra nessuno dobbiamo chiudere, stiamo a vedere». Amareggiata anche Rossana Masserini di Urio Motoforniture: «Siamo aperti ma di fatto non serve a nulla, c’è tanta amarezza perché non ce lo meritavamo». Poter tenere aperto il negozio solo per doverlo chiudere arrivati a sera è una beffa per gli esercenti del centro città: «Il Dpcm è poco chiaro, la gente non sa se comprare è “comprovata necessità” e ha paura delle multe – rimarca Roberta Curnis di Katta&Ko, negozio di abbigliamento da ciclismo –. Chi mi viene a prendere una salopette termica quando si può fare attività motoria solo nei paraggi di casa? Stiamo valutando se ci conviene tenere aperto con i costi del riscaldamento e della luce». In molti hanno già deciso di ridurre gli orari di apertura: «Faremo orari più corti, ma mi domando come faremo a pagare la merce» si chiede amareggiata la titolare di Tip Tap Scarpe Bimbi. «Settimana prossima staremo aperti solo la mattina, i clienti hanno paura di venire bloccati venendo qui», dice Emanuela Civera della lavanderia di Valtesse L’angolo del pulito.

Fatti due calcoli infatti, a molti negozianti conviene di più lavorare in smartworking, con attività sui social e consegne a domicilio: «Possiamo vendere solo capi per bambini», spiega Silvia Di Geronimo, che nel suo MatiLab ha apposto strisce biancorosse sugli scaffali dell’abbigliamento donna, «siamo qui solo per scattare foto, pubblicarle e fare le consegne». Una strategia a cui stanno pensando anche i negozi di biancheria e i fioristi: «Sono qui per le tre e quattro spedizioni in arrivo, ma sto pensando di fare il trasferimento di chiamata e muovermi per le consegne di casa in casa», svela Antonella Passoni dell’intimo Scalcinati. «Per ora è la stessa cosa che stare chiusi, stiamo pensando di dedicarci alle consegne a domicilio», le fa eco Cristian Bonfanti di Oggetthi in Borgo Santa Caterina. Fuori la gente c’è, ma passeggia con il cane o fa jogging: «Ci hanno tenuto aperti solo per non doverci sovvenzionare come i ristoratori», ribatte Lidia Bordoni della profumeria Joli, supportata da Pierluigi Cervati che, immerso tra i mattoncini Lego del suo negozio, dice: «Facendoci tenere aperti non ci danno soldi, inoltre stiamo subendo una concorrenza sleale dai colossi di Internet». Già perché, come se non bastasse, i cittadini sono sempre più invogliati a fare compere con un click per vedersi poi spedita la merce a casa: «Le difficoltà rimangono, noi abbiamo un competitor che è Amazon che non è giusto abbia il monopolio in questo periodo», precisa Pierpaolo Arnoldi dell’omonima libreria.

In coda per un caffè d’asporto

Tra i colleghi però prevale lo spirito di solidarietà: «O si chiude tutti o nessuno, a me dispiace che le estetiste non possano lavorare, perché loro no e i parrucchieri sì?», fa notare la parrucchiera Tiziana Gualdi. A sorridere sono ferramenta, informatici, edicolanti e tabaccai, che vendono la merce più utilizzata dalle persone in lockdown. Ma anche i bar si sono arrangiati e, per scongiurare la chiusura, hanno predisposto un paio di tavolini fuori dai locali per servire il caffè d’asporto all’americana: «Ma è un disastro, i miei 8 dipendenti sono in cassa in deroga, il bello del caffè è prenderlo al tavolino», lamenta Alfredo Jako. Eppure, fuori dal suo Café Marly, si è formata una coda di gente: per un buon caffè, non c’è autocertificazione che tenga.

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