«Ho toccato il fondo, ma mi sono riscattato: diventerò padre, lo insegnerò a mio figlio»

La storia di Nicola Cuni Berzi: l’abbandono della scuola, l’inferno della droga, poi il volontariato e ora un lavoro stabile.

Una «pecora nera»: così si è sempre considerato Nicola Cuni Berzi, con i suoi occhi azzurri e un sorriso malandrino, il ragazzo dell’ultimo banco che «è intelligente ma non si applica». Ha solo 19 anni ma è come se avesse già vissuto dieci vite.

Adesso, però, può stare di fronte al mondo a testa alta, perché ha toccato il fondo ma è riuscito a risalire, è sopravvissuto alla droga e alla strada mantenendo intatti il suo entusiasmo e la sua voglia di vivere. Non è da tutti.

Ha scontato i suoi errori e si è rimesso a studiare, ha lavorato come operatore sanitario nella terapia intensiva dell’ospedale di Treviglio nel periodo peggiore della pandemia. È tornato sulla strada con l’uniforme dei City Angels per tendere la mano ad altre anime smarrite. Ora lavora come falegname e presto diventerà papà.

Per ottenere questo risultato ha dovuto attingere a tutto il suo coraggio, e ci ha messo tempo, lacrime e fatica. Accanto a lui, però, c’erano sempre suo padre Giovanni, che non si è mai arreso e il Patronato San Vincenzo, la sua «famiglia allargata». Sono rimasti lì, solidi come una roccia su cui appoggiare il piede nell’arrampicata, anche quando il cuore tremava.

Nicola è stato adottato quando aveva tre anni: «Sono arrivato a Trescore Balneario dalla Bulgaria - racconta -. La mia famiglia mi ha sempre dato molto affetto, non mi è mai mancato nulla. Quando avevo otto anni mia madre, che faceva l’infermiera, si è ammalata di tumore al seno. All’inizio ritenevano che sarebbe guarita, così hanno preferito non dirmi nulla, per non turbarmi».

Terminata la scuola primaria, si è iscritto alla secondaria di primo grado: «Non avevo problemi particolari, ma non avevo voglia di studiare. Ero indisciplinato, collezionavo note e brutti voti».

Quando stava terminando la seconda media, la malattia della mamma si è ripresentata: «La situazione, purtroppo - ricorda - è risultata subito grave, e stavolta i miei genitori me ne hanno parlato apertamente. Mia madre è stata ricoverata in ospedale e per mesi è rimasta lì, tornando a casa solo ogni tanto. Andavamo a trovarla spesso, e capivamo che stava male. A un certo punto i medici ci hanno comunicato che le restavano pochi mesi di vita. Lei ha preferito essere dimessa, per poter morire nel suo letto. In quel periodo la nostra casa si è adattata alle sue esigenze e c’erano sempre infermieri e medici che ci aiutavano».

Nicola non riusciva ad accettare l’idea della morte, quando è arrivata lo ha colto alla sprovvista, in una sera qualunque, in cui aveva partecipato a una riunione all’oratorio con il gruppo dei chierichetti ed era andato a dormire dai nonni. Ha trascorso i giorni successivi tra dolore e smarrimento: «Una settimana dopo mi sono presentato agli esami. Non ero molto preparato, ma sono stato comunque promosso». È trascorsa l’estate, lui e suo padre Giovanni si sono appoggiati l’uno all’altro.

«Mi sono iscritto all’istituto tecnico Icaros di Grumello del Monte, scegliendo l’indirizzo informatico. Ho iniziato bene, ma poi l’impegno è diventato troppo pesante. Così ho iniziato a saltare le lezioni, con altri quattro o cinque ragazzi. Gli altri erano più grandi, fumavano sigarette e spinelli e imitandoli ho iniziato anch’io. Lo facevo per fare colpo sulle ragazze».

La scuola ha segnalato l’alto numero di assenze al padre: «Ho inventato delle scuse, e lui all’inizio mi ha dato retta. Dopo un secondo avviso, però, ha seguito in auto l’autobus e mi ha scoperto. Alla fine ho abbandonato la scuola in malo modo». Subito dopo il padre ha portato Nicola al Patronato San Vincenzo: «Mi ha iscritto al corso di meccanico autoriparatore. Mi piaceva l’idea di cambiare e ho iniziato con entusiasmo, poi però sono ricaduto nel solito meccanismo: marinare la scuola e fumare. Vista la situazione, gli insegnanti mi hanno consigliato di rivolgermi al Centro Meta, che offre sostegno e orientamento a ragazzi che non studiano e non lavorano. Quando ci sono entrato mi sono subito accorto che lì mi chiamavano per nome, non ero solo un numero sul registro di classe. I laboratori si svolgevano in un’atmosfera informale e vivace. Ho trascorso un anno bellissimo, intrecciando relazioni importanti, che continuano tuttora. Mi sono dedicato a lavori manuali, ricavandone molta soddisfazione. Ho imparato i fondamenti della falegnameria».

Le cattive compagnie, però, continuavano ad assillarlo e il pensiero della droga era come il canto delle sirene, lo attirava in modo irresistibile: «Il fumo ha preso il sopravvento, ho perso la testa. Dagli spinelli sono passato anche alle pasticche. Trascorrevo giornate intere alla stazione, combinavo guai con gli altri ragazzi, rompendo finestrini e imbrattando muri. Abbiamo iniziato a spacciare per procurarci a nostra volta le dosi. Non ci interessava più niente. Mio padre intanto faceva di tutto per tirarmi fuori, ma io non me ne rendevo conto. Un giorno la polizia mi ha colto in flagrante e mi ha arrestato. Mi hanno dato la possibilità di scontare la pena in una comunità di Pontirolo Nuovo anziché in carcere e ho accettato. L’unica idea che avevo in mente, però, era scappare. Ero ancora in preda alla dipendenza, senza droga non riuscivo a stare. Sono andato nella zona di Zingonia per trovare il fumo, poi i carabinieri mi hanno riportato in comunità. Pochi mesi dopo sono scappato di nuovo e sono tornato a casa sotto l’effetto degli stupefacenti. Mio padre mi ha messo in macchina e mi ha riportato in comunità. La terza fuga è stata la peggiore: non so che cosa avessimo in mente, volevamo andare al mare. Abbiamo preso un treno e ci siamo trovati a Pescara, così, senza soldi, avevamo solo i vestiti che indossavamo. Sono rimasto lì per tre settimane, vivevo di espedienti, bevevo e fumavo. Poi mi sono spostato a Rimini, sempre seguendo altri sbandati, e ho toccato il fondo. Mi sono svegliato ubriaco, senza maglietta, senza ricordare nemmeno quali sostanze avessi assunto la notte precedente. Ho ripreso il treno, senza biglietto, conciato com’ero. Quando sono sceso mi hanno preso e mi hanno messo in una cella. Per tutto quel periodo a casa non avevano più saputo niente di me, non so cosa avrà pensato nel frattempo mio padre. Quando è venuto a prendermi non mi ha rivolto la parola. Mi ha portato in comunità, poi se n’è andato via senza dire niente. Quel silenzio mi pesava addosso come un macigno. I carabinieri mi hanno dato l’ultimo avviso: se fossi scappato di nuovo mi avrebbero portato nel carcere minorile».

Nicola ha dovuto scontare tutti questi inciampi: aveva gli occhi puntati addosso. Stavolta, però, è scattato qualcosa in lui: «Ci sono voluti mesi di lavoro intenso, con la guida degli educatori, ma sono riuscito a rimettermi in piedi, a seguire tutto il percorso di recupero e a uscirne pulito. Sono tre anni che non faccio più uso di stupefacenti».

Nella comunità il suo compito era la cucina: «Non ne sapevo niente, ma ho imparato bene».

Ha ricominciato a studiare seguendo un corso serale per assistenti familiari a Treviglio: «Quando ho iniziato il tirocinio c’era la pandemia e mi sono ritrovato al pronto soccorso dell’ospedale di Treviglio, dedicato ai malati Covid. All’inizio potevo solo osservare, poi ho iniziato a dare una mano al triage e in terapia intensiva. Dovevo indossare tutto l’equipaggiamento di protezione con quella tuta che ci faceva sembrare astronauti. I malati erano moltissimi e non facevamo pause. Nel frattempo è terminato il mio soggiorno in comunità e mio padre mi accompagnava da Trescore a Treviglio e ritorno. Per non fargli correre rischi viaggiavo sul sedile posteriore con la mascherina e i finestrini abbassati». Nicola si è appassionato a questo lavoro: «Ho deciso di continuare la formazione iscrivendomi al corso per Operatore Socio Sanitario, e ho svolto un tirocinio in una casa di riposo».

Nel frattempo ha conosciuto per caso i City Angels e ha deciso di dedicarsi anche al volontariato: «Sono rimasto colpito dal loro servizio alla stazione accanto a persone che vivono lo stesso smarrimento che ho sperimentato anch’io, anche se in forme più forti ed estreme. È stata un’esperienza forte accompagnarli e poter contribuire al loro lavoro».

Si è fidanzato con Chantal, e da poco ha avuto una notizia «esplosiva» che ha rimesso in discussione il suo cammino: «Presto diventerò papà, e ne sono davvero felice. Ho deciso di lasciare il corso di Oss perché devo mantenere la famiglia. Purtroppo Chantal è disoccupata e non è facile trovare lavoro durante la gravidanza. Mi ritengo fortunato: ho trovato un posto come falegname a Chiuduno, mettendo a frutto ciò che ho imparato al Centro Meta del Patronato. Ora mio padre mi sta aiutando a cercare una casa in affitto e vorrei prendere la patente. Ho dovuto sospendere l’attività di volontariato, perché gli impegni sono davvero molti, ma spero di poter riprendere in futuro».

Don Mauro Palamini e gli educatori del centro Meta sono rimasti sempre vicini a Nicola e al Papà Giovanni: «Per noi - sottolinea don Mauro - sono parte della grande famiglia del Patronato e siamo fieri dei risultati che Nicola è riuscito a ottenere».

Non è stato facile: «Se dovessi parlare al ragazzo che sono stato - sottolinea Nicola -, lo prenderei a schiaffi. Sono felice di aver pagato i miei debiti con la giustizia. Da poco, nel mese di ottobre c’è stata l’udienza definitiva e il giudice mi ha detto: “Ti cancello tutti i reati, perché te lo meriti, sei un esempio di riscatto”. Ho ricevuto i complimenti del ministero della Salute per l’impegno nella terapia intensiva in tempi di Covid-19. Questo mi ha insegnato che non bisogna mai perdere la speranza, che risollevarsi è possibile, ed è ciò che insegnerò a mio figlio».

© RIPRODUZIONE RISERVATA