I popoli in lotta
per essere liberi

La democrazia non è solo un metodo di governo (libere elezioni) ma anche e soprattutto un ideale che va difeso da chi vuole ridurne spazi e sostanza (separazione dei poteri, libertà civili e d’informazione). In Europa la diamo per scontata ma, seppur zoppicante, non è così. La maggior parte degli Stati del mondo non sono democratici e i cittadini vivono costrizioni che nemmeno ci immaginiamo. Da oltre cinque mesi la popolazione del Sudan scende ogni giorno in piazza. La protesta è stata innescata dall’aumento dei generi alimentari e subito repressa nel sangue dal regime del presidente Omar Hasan Ahmad al-Bashīr, al potere da 30 anni e destinatario di un mandato d’arresto per crimini di guerra e crimini contro l’umanità emesso nel 2009 dalla Corte penale internazionale. L’accusa riguarda i massacri nel Darfur, tra le zone col più basso reddito pro-capite dell’Africa ma ricca di petrolio, a partire dal 2003: la maggioranza nera si è rivoltata alla minoranza araba per avere dalla capitale Khartoum una devoluzione di potere e di risorse. L’esercito governativo appoggiato dalla tribù nomade-guerriera dei Janjaweed ha ucciso tra le 200 e le 400 mila persone, provocando un milione di profughi su sei milioni di residenti.

Ma il sangue è scorso anche nel Sud Sudan per ben 32 anni. Alla regione, che soffre d’insicurezza alimentare e di malnutrizione, è stata concessa prima l’autonomia, poi in seguito a un referendum, è diventata Stato nel 2011. Il conflitto è però proseguito perché il colonnello Omar al-Bashir non si è mai rassegnato alla perdita di quella zona anch’essa guarda caso ricca di petrolio.

In questo Paese ferito e oppresso il popolo ha deciso di dire basta. Le proteste dallo scorso gennaio non si sono mai fermate e ad aprile il presidente-dittatore ha lasciato il potere, anche perché nel frattempo l’esercito sposava sempre più la causa di chi scendeva in strada (in media un milione di persone su 36 milioni di abitanti) fino ad arrestare gli esponenti del governo. Ma gli stessi militari con un voltafaccia hanno preso le redini del potere, parlando di «transizione». Le proteste così proseguono, a sostegno della domanda di elezioni libere. L’esercito usa le armi e nella manifestazione del 3 giugno nella capitale vengono uccise 107 persone, 700 i feriti e 200 arresti. Ma ormai il malcontento è un fiume in piena e i militari hanno due alternative: reinstaurare i metodi del deposto presidente o trovare un’intesa con la piazza. Ha prevalso la seconda ipotesi, grazie alla mediazione dell’Unione africana e dell’Etiopia. Il governo di coalizione dovrebbe essere formato da 5 civili e 5 militari, con un undicesimo posto riservato a un civile con un passato nell’esercito. Dovrebbe rimanere in carica tre anni e consentire intanto di preparare il Paese a libere elezioni; il controllo del governo sarà a rotazione di civili e militari. L’accordo sembra poter funzionare, ma la situazione in Sudan è sempre precaria.

A un’altra latitudine e in un altro contesto, le proteste popolari riguardano in questi giorni anche Hong Kong, territorio autonomo nel Sudest della Cina, già colonia britannica. Centinaia di migliaia di persone manifestano contro un emendamento a una legge sull’estradizione che consentirebbe di processare in Cina le persone accusate di aver commesso alcuni crimini, tra i quali si teme anche quelli legati al dissenso politico.

La democrazia e la libertà sono sempre conquiste che nascono dal basso, dalla spinta popolare. Non si raggiungono con un taglio netto, come hanno dimostrato le fallimentari esperienze militari in Iraq e Libia. Ci vuole più coraggio a manifestare in strada che a bombardare un Paese.

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