La foto del passato per farsi coraggio
e la vita vissuta «Giorno per giorno»

Jenni Cerea ha una rara sindrome genetica degenerativa: cure negli Usa. Un’associazione fa conoscere la sua storia.

C’è un palloncino a forma di zebra sospeso sul soffitto in camera di Jenni Cerea, a Curno: è la mascotte scelta dall’associazione dei malati di Ehlers Danlos, rara sindrome genetica con cui lei combatte dal 2005. «Quando senti rumore di zoccoli, non ti aspetti di vedere una zebra» è, infatti, una metafora molto usata nelle facoltà di medicina americane per insegnare agli studenti che non sempre l’ipotesi più semplice è quella giusta. Jenni lo sa bene, perché sono passati otto anni dai primi sintomi per arrivare alla diagnosi precisa di questa patologia degenerativa, che colpisce il tessuto connettivo: «I primi segnali - racconta - sono ingannevoli come il rumore di zoccoli, portano i medici in tutt’altra direzione».

Negli ultimi tredici anni la sua camera è diventa rifugio e prigione, è come una bolla in cui la sua condizione l’ha rinchiusa: «Ricordo bene il giorno preciso in cui questo calvario è incominciato: era il 2 ottobre del 2005. Avevo 22 anni ed ero una ragazza vivace e intraprendente. Ho studiato al liceo classico Sarpi e poi alla facoltà di Lettere moderne dell’Università di Milano, la mia vita era molto movimentata. Seguivo corsi di danza moderna, mi cimentavo in tante attività artistiche. Per non pesare sulla mia famiglia mi davo fare con mille lavoretti: davo ripetizioni, facevo la baby sitter, posavo come modella per alcuni negozi di abbigliamento di Bergamo, lavoravo nelle fiere come hostess».

Una figura elegante

Sulla scrivania ci sono le foto di una ragazza alta, slanciata, con i capelli lunghi e una figura elegante: Jenni le guarda dal suo letto, le ricordano il passato. Può sembrare doloroso confrontare quelle immagini così belle con la realtà difficile di oggi, ma lei le usa per farsi coraggio, per non dimenticare i suoi sogni, perché non vuole arrendersi, e come dice una citazione di Neruda che ha scelto per il suo blog «è proibito non sorridere ai problemi, non lottare per quello in cui credi e desistere per paura». «Sono sempre stata un po’ fissata con lo studio - ricorda - quando mi sono ammalata avevo appena sostenuto un esame impegnativo, me ne mancavano altri due e mezzo alla tesi, e fino ad oggi, purtroppo, le mie condizioni di salute non mi hanno permesso di finire il percorso. Ho sempre sofferto di dolori alla cervicale, e per alleviarli in quei giorni avevo fatto alcuni esercizi per estendere le vertebre. Poi una mattina mi sono svegliata con un lato del corpo debole e insensibile, come se avessi avuto un ictus. Mi hanno portato subito all’ospedale, ma i medici del pronto soccorso non riuscivano a capire quale fosse il problema».

È iniziato così un percorso difficile, costellato di visite ed esami: «Gli specialisti andavano avanti per esclusione. Avevano notato una siringomielia, uno dei danni midollari che la mia sindrome provoca, ma non erano riusciti a comprenderne l’origine. Hanno pensato alla sclerosi multipla, poi, esclusa quella, ad altre patologie degenerative. Nessuna, però, corrispondeva correttamente al mio quadro clinico. Avevo anomalie cerebrali, micro-ischemie, vasospasmo come una novantenne. Siamo andati avanti con le indagini, e via via venivano escluse le patologie più diffuse legate ai sintomi neurologici che si manifestavano: parestesie, vertigini, mal di testa, dolore. Era chiaro che si trattava di una patologia degenerativa del sistema nervoso, ma nessuno sapeva quale». La vita di Jenni è cambiata radicalmente da un giorno all’altro: «Mi sono ritrovata a dipendere dagli altri per andare in bagno, per prendermi cura della mia persona, per mangiare, ho dovuto affrontare una lista di sintomi infinita. La sindrome genetica da cui sono affetta, infatti, colpisce il tessuto connettivo, che è dappertutto nel nostro corpo. Dà problemi a molti organi, dagli occhi all’utero, provoca infiammazioni della pelle. Le difese immunitarie reagiscono come se il corpo fosse continuamente sotto attacco, manifesta reazioni allergiche esagerate e sindromi autoimmuni. Provoca tachicardia, perché i centri di controllo non riescono a mandare gli impulsi corretti al resto del corpo». È iniziato un lungo pellegrinaggio: «Mi sono rivolta a tutti i centri italiani con specializzazione neurologica, nessuno sapeva darmi una spiegazione».

Le cartelle ai centri europei

Allora Jenni ha ampliato il suo raggio di ricerca: «Abbiamo incominciato a mandare le cartelle cliniche da esaminare ai principali centri europei. Mia madre continuava ad andare avanti e indietro dall’ufficio postale di Curno con i grossi plichi dei miei esami clinici e così abbiamo conosciuto Orietta, che lavorava lì. Un giorno ha chiesto a mia madre come mai mandava tutti quei plichi e lei le ha raccontato la mia storia, così ha cercato di fare di tutto per darci una mano. Ora è diventata la mia vice mamma, è lei che si occupa di tutte le iniziative dell’associazione onlus Giorno per giorno (www.giornopergiornonlus.it) che abbiamo fondato per far conoscere la mia storia e ottenere da chi lo desidera un aiuto per sostenere le spese mediche».

Ci sono voluti altro tempo e impegno per ottenere una risposta definitiva, che è arrivata soltanto quando Jenni ha deciso di rivolgersi a Paolo Bolognese, chirurgo italiano che lavora negli Stati Uniti. «Grazie a lui ho approfondito il mio percorso diagnostico con nuovi esami, mi ha messo in contatto con altri specialisti di altissimo livello, e in particolare Fraser Henderson e Iram Naz Qureshi. Finalmente è arrivata la diagnosi corretta di Ehlers Danlos, che ha messo insieme tutti i pezzi del mio puzzle e ha dato un senso alla mia storia. Così ho scoperto che le crisi epilettiche di cui avevo sofferto da bambina, dagli otto agli undici anni, e che poi si erano risolte spontaneamente, erano state il primo campanello d’allarme, e che le mie mani, così lunghe e flessuose, sono un altro segno tipico della malattia. Mi sono sentita sollevata per aver trovato l’origine delle mie sofferenze, ho incontrato altre persone con la stessa malattia ed è stato un conforto potermi confrontare con loro. Certo, è stata dura sentirmi dire che avevo una patologia genetica, ma in fondo avevo già capito che la situazione era grave, mi avevano prospettato gli scenari peggiori. Mi sono detta comunque che non mi sarei mai data per vinta finché c’era la possibilità di fare qualcosa. I medici mi hanno prospettato un percorso di terapie e interventi per rallentare la malattia e migliorare la qualità della mia vita. Mi hanno detto che il mio corpo reagisce bene, perché rinunciare? Ci sono casi documentati di successo del dottor Anderson, in cui persone costrette a letto per molti anni come me sono state riportate a una condizione quasi normale. È vero che ogni paziente è diverso, ma non voglio smettere di combattere». I costi altissimi della sanità americana hanno rappresentato fin dall’inizio un grosso ostacolo: «Ho cercato di ottenere un contributo dal nostro sistema sanitario ma le mie domande sono sempre state respinte. Allora mi sono decisa a chiedere aiuto, a cercare solidarietà e “sponsor” per conto mio anche se è stato molto faticoso espormi in prima persona, raccontare la mia storia, mettere a nudo le mie fragilità». Jenni ha incontrato amici preziosi lungo il percorso, che l’hanno aiutata a costituire un’associazione, ad aprire un sito internet e ad avviare una serie di iniziative di raccolta fondi: «Ho incominciato a tenere un diario, a raccontare la mia vita giorno per giorno dando notizia dei miei viaggi, delle terapie, delle operazioni. Ho aperto una pagina Facebook, ho incominciato a interagire sui social network per mettermi in contatto con altri e trovare le risorse necessarie. Sono diventata un punto di riferimento per altri malati in condizioni simili alle mie, spesso mi scrivono per chiedermi informazioni o anche solo per sentirsi meno soli. Ho imparato molto e ho toccato con mano la vicinanza della gente, anche se è molto faticoso raggiungere le alte cifre richieste dagli ospedali americani: ogni viaggio richiede circa centomila euro. In cinque anni sono riuscita a fare altrettanti interventi, altri pazienti americani grazie alla copertura dell’assicurazione nello stesso periodo ne hanno subiti il triplo, ottenendo - ovviamente - risultati molto più significativi».

Il viaggio negli Usa

Jenny è appena tornata dall’ultimo viaggio negli Usa: «Sono rimasta per due mesi a Providence per sottopormi a una nuova terapia e poi per qualche settimana a Washington. Ci sono tanti nodi da sciogliere: le vertebre instabili, la stenosi del seno trasverso cerebrale. La strategia chirurgica è prudente, parte con piccoli passi, segue la reazione del corpo e l’evoluzione della malattia». In ogni trasferta Jenni è accompagnata dalla mamma Camilla e da un’infermiera che la segue da Bergamo: «È necessario, perché mi capita di avere dei problemi nell’attesa e durante il volo. Quando sono negli Usa, poi, trascorro solo parte del soggiorno in ospedale, e dopo gli interventi, quando sono alloggiata in una struttura esterna, uno dei residence per i pazienti convalescenti, ho comunque bisogno di assistenza».

L’associazione Giorno per giorno si cimenta in tante iniziative creative: concerti panettoni solidali, gadget. Jenni può contare su amici speciali, come Red Ronnie e i Pooh, che le hanno dato una mano, ma il cammino è ancora lungo, c’è sempre molto bisogno di aiuto: «In America ho trovato una speranza per il futuro e qualche strumento in più per lottare, questo mi ha dato coraggio. Ogni tanto arriva qualche momento di sconforto, la malattia mi ha portato via la spensieratezza, vorrei tanto potermi riprendere la mia vita. Non posso perdermi d’animo: continuerò a combattere con tutte le mie forze».

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