La malattia, l’addio alla scuola, la rinascita
La storia di Francesca in un libro

Ci sono vite che, chissà perché, vengono messe alla prova più di altre. Temprate a fuoco vivo come l’acciaio, diventano diamanti sulle nostre strade, preziose pietre d’inciampo che ci aprono gli occhi su ciò che vale di più: un abbraccio, un sorriso, il tempo trascorso ad ascoltare, la capacità di fermare di tanto in tanto l’orologio al polso per accendere quello del cuore e chiederci se siamo felici e se questa vita che abbiamo tra le mani, e non un’altra, l’amiamo abbastanza.

Le mamme che hanno incrociato Francesca Cerami a scuola, dicono che bastava conoscerla come maestra per volerle bene. Tutto il resto ne ha fatto un dono ancora più grande. E per iniziare a raccontare «tutto il resto» occorre partire dalla puntata più recente, da quel libro che Francesca ha scritto e presentato all’ultima Fiera dei librai sul Sentierone in città: «Vivere è anche questo» (Sestante Edizioni), una sorta di diario dell’anima, che mettendo in fila le tessere di un percorso accidentato del tutto personale restituisce parole ed emozioni che possono essere di molti. Come la paura, quel perenne stato d’allerta che rende quasi irraggiungibile la possibilità di tornare ad essere gioiosi.

È il 24 aprile 2013, un mercoledì. Schiere di bimbetti tornano a casa con le solite magliette inzaccherate. Merenda, giochi, una lettura, due esercizi e quella breve nota di cronaca che scivola via così, fra un dispetto al fratellino e l’acqua calda nella vasca che comincia a fare le bolle: «Stamattina la maestra Francesca non si è sentita bene». «Inizio ad avere paura. Tanta paura», racconta lei oggi, tornando con la memoria e con il cuore a quelle ore, mentre la dottoressa al pronto soccorso del Papa Giovanni le diceva: «Purtroppo non ho buone notizie. La Tac rileva la presenza di un esteso meningioma sfenoidale che compromette anche il nervo ottico dell’occhio sinistro. Mi dispiace ma è da ricoverare e operare con urgenza».

Scrive Francesca: «Il tempo si è fermato in questo preciso momento; un susseguirsi di immagini della mia vita venivano proiettate a gran velocità nella mia testa sgretolandosi con altrettanta rapidità». E piange. A quarant’anni non ancora compiuti, un lavoro che ama, un marito d’oro, come avrebbero detto le nonne di un tempo, e un figlio di soli due anni, Francesca si trova ancora una volta con il cuore spezzato e la vita che chiede troppo. Non è bastato perdere il papà giovanissimo, che lei piccolina non ha fatto in tempo nemmeno a conoscere. E non è bastato perdere anche la mamma, dopo sì e no diciassette anni, restando soli, lei e il fratello Andrea, con la loro forte nonna Maria, quando ancora erano a cavallo tra le superiori e l’Università.

Ma i miracoli, nonostante tutto, esistono. «Sempre, nella vita di tutti i giorni. Non dobbiamo mai perdere la concentrazione su quanto di bello ci circonda, per saperli cogliere, i miracoli, che come doni qualcuno da lassù ha posto sul nostro sentiero», dice questa donna minuta, piccolo grande concentrato di coraggio e di dolcezza, che riesce a raccontare quei trentuno giorni d’ospedale con ironia («mi spostano sempre in sedia a rotelle, devono aver scoperto la mia passione per il quad») e la leggerezza ereditata dalla mamma Paola: «Solare e sorridente, sapeva trovare un lato positivo in ogni cosa».

Anche in ospedale, la bellezza non manca, né un motivo per dire grazie. Il neurochirurgo che prende in mano il caso di Francesca è un vecchio amico d’infanzia, mai più incontrato da quegli anni bambini nel quartiere San Paolo in città: «È stato un regalo, un dono dal cielo». Come lo sono gli incontri, le strette di mano e i sorrisi che riescono ad asciugare le lacrime e a riempire di calore quelle fredde stanze colme di fatica. Come è un dono, anzi «un bellissimo sogno», risvegliarsi dal delicatissimo intervento chirurgico cui viene sottoposta nel giro di un paio di settimane e poter dire: «Sono viva e accanto a me ho la mia famiglia».

Inizia una seconda vita ed eccoli, Matteo e Riccardo, che la riempiono di coccole: «Io sono creativa, mio marito Matteo è più pratico, più razionale. È stato molto bravo a gestire quei giorni e nostro figlio Riccardo, pur essendo molto piccolo, ha potuto vivere tutto con serenità, come se fossero cose normali». Merito anche delle educatrici del nido e della capacità di chi aveva attorno di raccontargli la verità con le parole giuste: «La vita mi aveva già insegnato che mentire, anche se fatto a fin di bene per proteggere le fragilità delle altre persone, chiude le porte e non aiuta. I bambini, soprattutto, capiscono quando cerchi di nascondere qualcosa. Certo, occorre avere il tempo per capire e trovare i tempi e le modalità giuste per sostenersi nella verità», racconta Francesca. Come dice lei, un pezzo del suo cuore è in Riccardo, unico e speciale. A lui è dedicato il libro: «A te che quando mi vedi stanca mi prendi il viso tra le tue mani e dici: “Ti do la forza, mamy!”».

E quanti altri bambini ha incrociato Francesca in quasi vent’anni d’insegnamento: «Ho ancora la mia cartelletta arancione in cui conservo tutti i biglietti e i disegni che mi hanno mandato in quei giorni d’ospedale. Insegnare è un mestiere stupendo, è una missione. È aiutare i bambini a riempire lo zaino che hanno sulle spalle con gli strumenti indispensabili per affrontare la vita. È come lavorare la creta per plasmare persone che poi cammineranno con le loro gambe. Se sei vera, onesta e leale con loro, i bambini ti seguono. Sentono ciò che sei». Lasciare la scuola è stata «la tristezza più grande. Non potevo più dare la continuità necessaria».

Ma Francesca non si arrende. Un mese e mezzo dopo l’intervento, è a Lanzarote con la sua famiglia: «Mi sono presa un bel rischio, contro il parere di tutti», ricorda, ridendo divertita al pensiero degli sguardi spaventati dei vicini d’aereo di fronte al suo «cerchietto» di 38 punti di sutura: «Era una vacanza già programmata da tempo e avevo bisogno di viverla comunque, di sentirmi non malata e di stare tranquilla con Matteo e Riccardo». I grandi orizzonti, la semplicità delle persone, la natura che domina i ritmi della vita curano il fisico e l’anima. Lanzarote diventa un richiamo e un rifugio, soprattutto dopo una ricaduta della malattia, che si ripresenta a breve distanza di tempo dall’operazione. Altra paura, altre cure, di nuovo viva, pronta a ripartire, con l’inesauribile voglia di sorridere e rimettersi in gioco, per regalare agli altri qualcosa di utile: «Sto bene e mi sento felice quando aiuto qualcuno».

Francesca inizia a scrivere e si rimette a studiare. Nelle sue mille vite, c’era già stata una tappa nei terreni della psichiatria: «Terminato il liceo psicopedagogico, mi sono laureata in terapista della riabilitazione psichiatrica all’Università degli Studi di Milano. Detesto le etichette e i confini, la nostra mente non ne ha e questo mondo mi ha sempre affascinato». Così riannoda quel filo, che è al tempo stesso riprendere il percorso dell’insegnamento interrotto: «Ho seguito in Toscana un corso di specializzazione con l’associazione For-You Atdra (Approccio terapeutico dinamico relazionale), presieduta dal dottor Antonio Rinaldi, per lavorare con i bambini autistici e ho cominciato a sviluppare un progetto per loro: è stata un’occasione per tornare a stare con i più piccoli e a regalare qualcosa che possa essere d’aiuto. L’empatia che si è creata subito con le famiglie è stata incredibile».

Tra un controllo e l’altro, perché nonostante lo smalto di una splendida quarantacinquenne, convivere con gli acciacchi lasciati dal «sassolino» nella testa è tutt’altro che semplice, nei progetti futuri c’è anche un altro libro. Non c’è tempo per fermarsi. Non c’è spazio nemmeno per la rabbia: «Non fa parte di me. Presuppone tristezza o infelicità». C’è solo tanta voglia di ringraziare, ogni mattina ed ogni sera: «Io davvero sono riconoscente per la vita che ho avuto. Mi ritengo molto fortunata perchè ho sempre avuto accanto persone che mi vogliono bene e regalano serenità».

Sembra di ascoltare Ligabue che nel suo ultimo singolo, «Luci d’America», canta: «Serve pane e fortuna, serve vino e coraggio, soprattutto ci vogliono buoni compagni di viaggio». «È verissimo - dice Francesca -. Io non sono altro che la luce riflessa delle persone che mi stanno accanto e che hanno sempre un sorriso per me». Nonna, zii, cugini, amici, colleghi... Ad ogni passo della vita, l’elenco si allunga. «Vivere è anche questo - si legge nel libro -: condividere paure con le persone che ti sono più vicine per sostenerti a sop-portare (portare su di sè) il dolore di alcuni eventi».

Francesca Cerami chiude il suo testo con una citazione di Italo Calvino: «Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore». È l’insegnamento di sempre di mamma Paola che, mentre la maestra scrittrice svela le sue pagine intrise di vita a una piccola folla radunata sotto il tendone della Fiera dei librai, sembra di vederla lì, seduta sulla sedia a fianco, sorridente. «La vita è un grande dono - scrive Francesca - e purtroppo ce ne accorgiamo sempre troppo tardi... La vita per quella che è, nella sua quotidianità, nella sua semplicità e non la vita per come la vorremmo disperdendo energie e tempo sognando obiettivi irraggiungibili. “La felicità è desiderare quello che si ha”, scriveva Sant’Agostino». Piangere, cadere, aver paura, soffrire. Poi ripartire, con serenità, umiltà, coraggio, fiducia. E con un sorriso. Vivere è anche questo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA