L’amicizia tra nonne cura le ferite
e innesca un’esplosione di solidarietà

La storia speciale di Silvana e Barbara, l’una con il nipote affetto da fibrosi cistica e l’altra che ha perso il figlio a 10 anni per il cancro.

L’amicizia è come un filo rosso che unisce le persone, uno scudo che protegge dalle asprezze della vita, ed è anche l’arma più potente per superare il dolore: lo si legge nel sorriso di Silvana Ceroni e Barbara Brindani, unite da un passato difficile e dall’impegno a fianco dei bambini più fragili. Il destino le ha fatte incontrare tredici anni fa a Zogno, quando erano vicine di casa: guardavano i loro nipoti giocare insieme nel giardino, ai piedi di una magnolia, così hanno incominciato a chiacchierare e a scambiarsi confidenze. Ora hanno stretto un’alleanza preziosa, per combattere insieme contro la fibrosi cistica.

Le cure già a cinque anni

Silvana Ceroni è la nonna di Nathan, un bambino di 5 anni, che è nato con questa malattia: «Ha imparato subito a seguire le terapie e lo fa con molta serietà, nonostante sia ancora così piccolo. Fa la pep-mask (fisioterapia respiratoria, n.d.r.) da solo, e quando mi ha chiesto perché lui deve curarsi gli abbiamo spiegato che è un allenamento per aiutare i suoi polmoni e per stare meglio. Non è facile per lui e per la nostra famiglia: c’è sempre il rischio che si aggravi. Un banale raffreddore ci costringe a ricorrere subito a terapie aggressive, come cortisone e antibiotici. Quest’anno è stato particolarmente difficile, un malanno dietro l’altro da settembre a maggio».

La malattia

I medici della pediatria dell’ospedale hanno scoperto che Nathan aveva la fibrosi cistica dai controlli di routine eseguiti dopo la nascita: «Non sapevamo neanche cosa fosse – ammette Silvana con semplicità – abbiamo dovuto informarci. Abbiamo scoperto che mio figlio e mia nuora erano entrambi portatori di quel gene alterato CFTR (Cystic Fibrosis Transmembrane Regulator) responsabile della produzione di muco eccessivamente denso, e avevano il 25% di possibilità di avere un bambino malato. In Italia le persone con fibrosi cistica sono oltre seimila. Dylan, il primogenito, che ha 14 anni, è sano». Il Centro di riferimento per loro è presso l’Ospedale Maggiore di Verona: «Ogni volta che ci andiamo e parliamo con altri genitori e malati ci accorgiamo che esistono situazioni davvero drammatiche, pazienti costretti a ricoveri continui. Nathan per fortuna sta bene e finora non ha avuto bisogno di particolari interventi, ma anche noi viviamo con il fiato sospeso, ogni piccolo malessere è una minaccia. Va alla scuola dell’infanzia, teniamo sempre un antibiotico nel frigorifero».

Barbara è di famiglia: «Nathan mi chiama Scaramacai, perché per farlo sorridere mi piace imitare questo personaggio, un clown che si vedeva in televisione negli anni Sessanta. Lo faccio anche con i miei quattro nipoti. Ho perso mio figlio Marco quando aveva solo dieci anni a causa di un tumore molto aggressivo. Oggi ne avrebbe 34. Non posso sopportare che altri debbano affrontare un’esperienza terribile come la mia, per questo da allora mi dedico alla solidarietà e alla ricerca». Anche Silvana, che anni fa è rimasta vedova, ha passato momenti difficili: «Il dolore – racconta – ha creato un forte legame tra noi», e poi un’alleanza nel promuovere iniziative benefiche.

La passione per la scrittura

La passione più grande di Barbara è da sempre la scrittura: ha raccolto la storia di Marco legando ricordi, poesie, disegni e pensieri nel suo primo libro «Raccontando mio figlio». Un testo struggente che nel tempo le ha dato modo di aiutare il reparto di Oncologia pediatrica dell’ospedale di Brescia dov’era stato ricoverato e poi diverse associazioni di volontariato: l’ultima è l’Aifs, l’Associazione italiana familiari e vittime della strada onlus di Bergamo. «Mi sono chiesta – spiega – come avrei potuto dare una mano a Silvana e al suo nipotino. Ho scelto di nuovo la scrittura, questa volta ho pubblicato una raccolta di pensieri e di poesie, e ho deciso di devolvere il ricavato alla Fondazione per la ricerca sulla fibrosi cistica».

Il calvario di Marco

Offrire amicizia e aiuto agli altri è un modo per ricucire le ferite del passato: «Marco ha avuto un’infanzia felice, non si ammalava mai ed era un bambino più maturo della sua età. Un giorno però è tornato da un torneo di calcio con le orecchie gonfie. Pensavo che si trattasse di parotite, nella sua classe c’erano stati altri casi. Stranamente però non aveva febbre. Nonostante questo, quel sintomo non passava e si accompagnava a una intensa sudorazione notturna. Marco non riusciva a dormire e si indeboliva. Il medico lo ha sottoposto a una serie di esami ma non risultava nulla. È passato qualche giorno e ho deciso di insistere per farlo ricoverare, in modo da arrivare a una diagnosi precisa. Allora abitavamo nella zona del lago di Garda, siamo andati all’ospedale di Desenzano. Lo hanno sottoposto a un’ecografia al cuore e hanno scoperto che aveva un linfoma linfoblastico al terzo stadio, partito dallo sterno. Hanno ripetuto per due volte l’esame dell’ago aspirato per esserne sicuri. Quando il medico ci ha comunicato i risultati aveva gli occhi lucidi e ha insistito per offrirci la colazione. Ha detto davanti a tutti che non aveva mai visto un bambino così coraggioso e in gamba. Ho capito che la situazione era davvero grave, ma non volevo lasciar trasparire la mia preoccupazione, così quel giorno mi sono allontanata per tornare a casa a prendere dei vestiti, per dare sfogo a tutte le mie lacrime senza farmi vedere. Mi sembrava incredibile». I medici hanno consigliato un trasferimento all’ospedale di Brescia: «Nel reparto di oncologia pediatrica ci hanno dato il 60% di possibilità di guarigione e noi ci siamo aggrappati a questo, incoraggiando Marco a combattere».

Per Barbara e Marco è iniziato un periodo molto difficile: «Le cure erano invasive, avevano effetti collaterali devastanti. Mio figlio era molto debole e doveva circolare con una mascherina sul viso. La sua maestra, che era affezionatissima a lui, veniva a trovarlo spesso, gli portava i compiti in modo che non restasse indietro, lo coccolava con piccoli regali: scatole di lego, puzzle, modellini d’aereo da costruire. Gli portava i messaggi affettuosi dei suoi compagni. Sono passati tanti anni ma siamo rimaste in contatto e continuiamo a tenere viva la memoria di questo bambino speciale, il mio angelo». Marco sopportava tutto con pazienza: «A un certo punto – sottolinea Barbara – i medici erano preoccupati, proprio perché non si ribellava: vedevano in quell’atteggiamento una forma di rassegnazione. Il suo fisico era molto debilitato, stavamo aspettando che potesse essere sottoposto al trapianto di midollo. Sua sorella era felice, perché era compatibile al 100% e sperava di poterlo aiutare. Un paio di mesi prima dell’operazione, però, le sue condizioni sono peggiorate e ha avuto una paresi. Hanno dovuto sottoporlo a un nuovo ciclo di chemioterapia molto aggressivo, e purtroppo alla fine non è sopravvissuto». Nonostante tutto i ricordi di Marco raccolti nel libro di Barbara sono pieni di vita, di tenerezza e di speranza: «Da grande voleva fare il fumettista – racconta – aveva inventato un personaggio, Supercast, giocando con la forma di una castagna. Ho incluso alcune vignette nel mio racconto, perché rivelano molti aspetti del suo carattere. Negli ultimi giorni della sua vita aveva dolori forti, ma lo nascondeva temendo che mi preoccupassi troppo. Il giorno prima di morire mi ha detto che la vita lo stava lasciando. Mi si è stretto il cuore, perché capivo che era sempre più fragile, ma non volevo arrendermi, ho continuato fino all’ultimo a credere in una guarigione. Purtroppo non ce l’ha fatta».

Il sostegno della fede

Barbara porta al collo il tau di San Francesco: «È il mio santo del cuore, per me è fondamentale il sostegno della fede. Ora non faccio più progetti a lunga scadenza. Mi sono presa cura dei miei due figli maggiori, Veronica, mamma di Noah, e Davide, ora padre di tre figli. La scrittura – chiarisce – è stata una terapia importante, che mi ha aiutato a rialzare lo sguardo e a scoprire nuove strade da percorrere, nonostante le ferite e il dolore che mi accompagna da allora, senza spegnersi mai».

Con il tempo Barbara ha instaurato nuove amicizie, come quella con Silvana: «Ho conosciuto persone straordinarie, come Ivanni Carminati di Filago, presidente dell’associazione vittime della strada, che ha perso un figlio in un tragico incidente. Ho voluto incontrare i genitori di Giulia Gabrieli e di Carlo Acutis, che hanno vissuto esperienze in qualche modo simili alla mia. Quest’anno sono andata a raccontare la mia esperienza ai ragazzi della cresima, per trasmettere loro che cosa sia davvero importante nella vita. Da questo dolore ho attinto la forza di fare del bene». Da qui è nato anche il desiderio spontaneo di aiutare Silvana e il suo Nathan. Ora le due nonne danno vita insieme a diverse iniziative a sostegno della Fondazione per la fibrosi cistica.

Fiducia nella ricerca

«Può sembrare forse banale impegnarsi con tanti banchetti per la raccolta fondi – osserva Silvana – ma noi confidiamo moltissimo nei risultati della ricerca. Un tempo un bambino con la fibrosi cistica aveva un’aspettativa che non superava i vent’anni, ora sono quaranta e questo ci fa sperare che quando sarà più grande ci saranno nuove terapie. Per questo io investo tutto il mio tempo libero. Gli scienziati sono al lavoro e noi ci contiamo. Ogni iniziativa, anche modesta, come le nostre, è importante, può aiutare a diffondere notizie sulla fibrosi cistica, far crescere l’attenzione e la sensibilità verso i malati, che spesso si ritrovano in condizioni difficili e si sentono soli». L’amicizia tra Silvana e Barbara è come una scintilla, pronta a contagiare e ad accendere altre persone, e loro non mollano mai, perché, per usare le parole di Madre Teresa di Calcutta «Quello che facciamo è solo una goccia nell’oceano, ma senza quella goccia l’oceano sarebbe più piccolo».

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